Così come molti altri registi giapponesi della sua generazione, Kurosawa Kiyoshi ha mosso i primi passi nel mondo del cinema contribuendo al numero dei pinku eiga prima e all’industria del V-cinema poi, confezionando alcuni film sulla yakuza direttamente distribuiti in home video. Nel 1989 invece, ecco il salto nel genere che diventerà suo distintivo: l’horror. Esce infatti Sweet Home, pellicola che si rifà al topos della casa infestata dagli spiriti, insieme al quale viene distribuito anche un videogame che offrirà poi le basi per il ben più famoso franchise di Resident Evil.
È nel 1997 che il nome di Kurosawa comincia ad acquisire più importanza a livello internazionale grazie all’acclamato Cure, a cui seguirà, in apertura della sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes del 2001, Kairo. Ma la sua presenza ai festival del cinema è solo all’inizio e infatti nel 2008 presenzia nuovamente a Cannes con Tokyo Sonata, per cui vince il premio della giuria della sopracitata sezione, mentre nel 2015 si porta a casa il premio per il miglior regista grazie a Journey To The Shore. Sarà il 2016, con il film Creepy, l’anno che segnerà il ritorno all’horror del regista giapponese nonché la sua prima partecipazione al Festival del Cinema di Berlino, festival a cui è tornato quest’anno grazie alla pellicola sci-fi Yocho (Foreboding), facente parte della sezione Panorama.
KUROSAWA E IL TURBAMENTO SPIRITUAL
Inizialmente concepito come una miniserie TV (Yocho Sanpo Suru Shinryakusha, 5 episodi da 40 minuti per la pay tv Wowow) poi rieditata in un film da 140 minuti, Yocho è da considerarsi come una sorta di seguito per Before We Vanish, pellicola presentata allo scorso Festival di Cannes. Entrambi tratti da opere teatrali di Maekawa Tomohiro, questi due film si basano sul medesimo assunto: degli alieni vogliono invadere la Terra ma prima di farlo alcuni di loro sono già scesi tra di noi abitando corpi umani. Se Before We Vanish affonda per primo nel territorio della science fiction sconfinando anche, a tratti, nell’horror e nella commedia di genere, Yocho affronta il tema dell’imminente invasione aliena in modo più intimo e nervoso. Il film si apre su un interno, la casa di Etsuko (Kaho) e Tatsuo (Sometani Shōta), tutto sembra tranquillo ma c’è un vago senso di inquietudine che aleggia. Tatsuo sembra distante, la relazione tra i due piuttosto fredda, al punto che è quasi difficile capire che sono marito e moglie. Ai richiami della donna, appena rientrata, Tatsuo non risponde e quando finalmente lo troviamo sul terrazzo dell’appartamento – immobile, di spalle, come costretto in un angolo dell’inquadratura – è chiaro che ci sia davvero qualcosa che non va. E Kurosawa è un maestro nel tradurre sullo schermo un tale senso di inquietudine, di turbamento, che porta con sé, allo stesso tempo, qualcosa di soprannaturale.
Ma questa stessa inquietudine generalizzata non dà segno di abbandonare Etsuko neppure sul luogo di lavoro: anche il suo capo sembra sempre più scostante, chiuso nel suo mondo e disinteressato alla salute dei suoi impiegati, su tutte una giovane collega che, all’improvviso, ha smesso di riconoscere suo padre e pensa che un fantasma viva nella loro casa. È però in ospedale, quando Etsuko aspetta di avere notizie sulla sua collega, che strani fenomeni cominciano a manifestarsi – specchi che riflettono immagini distorte, rumori sinistri che sembrano quasi essere solo nella sua testa – un attimo prima che le venga presentato il Dottor Makabe, l’allampanato e vagamente inquietante nuovo medico dell’ospedale.
DAI FANTASMI DEL QUOTIDIANI AD ALIENI ASSETATI DI LINGUAGGIO
Se per la prima mezz’ora potrebbe essere facile scambiare Yocho per un film sui fantasmi, su quel soprannaturale del quotidiano che interrompe le nostre placide esistenze, ben presto la direzione verso cui Kurosawa ci vuole condurre diventa chiara. Così, insieme a Etsuko, veniamo a conoscenza del fatto che alcuni alieni sono tra noi – e il Dottor Makabe è uno di loro – che ognuno ha selezionato una “guida” tra gli esseri umani il cui compito è quello di indicare una persona a cui l’alieno dovrà rubare un concetto. Perché gli alieni di Yocho, prima di invadere la Terra, sono apparentemente assetati di conoscenza, curiosi del nostro linguaggio, e per questo cominciano a rubare i concetti di “famiglia”, “orgoglio”, “futuro”, “presente” semplicemente imponendo il dito indice sulla fronte della vittima – in un gesto che non può non ricordare l’E.T. di spielberghiana memoria. Così facendo la minaccia dell’invasione passa momentaneamente in secondo piano, lasciando il campo alla ben più viva paura di vederci svuotati della nostra individualità, della nostra capacità di usufruire del linguaggio e del legare a determinati concetti tutti quei ricordi che ci definiscono come essere umani.
UN FILM DILATATO MA CON UN ANDAMENTO LINEARE
Se indubbiamente Yocho soffre di una durata eccezionalmente lunga e avrebbe quindi potuto trarre giovamento da un editing più avaro, allo stesso tempo si intuisce la difficoltà di andare a tagliare un prodotto che, potendo pescare liberamente dal ricco testo di partenza in virtù dei tempi più rilassati del mezzo televisivo, si trova adesso a soffrire delle restrizioni del mezzo cinematografico. Come risultato abbiamo quindi un continuo alternarsi di generi passando dalla storia di fantasmi, alla minaccia aliena, al thriller poliziesco con accenni di gore. In tutto questo sorprende la narrazione che, nonostante una tale ricchezza tematica, non vede mai sacrificata la propria linearità. Così, ancor prima che possiamo accorgercene, ci vediamo catapultati in quel mondo sinistro che Kurosawa è solito dipingere, un mondo che in numerose scene del film appare vuoto, o forse svuotato dei suoi personaggi. Tuttavia è anche un mondo in cui regna una calma anch’essa al limite del soprannaturale, in cui l’imminente invasione aliena non diventa mai niente di più di un angosciante e ineluttabile futuro da cui è impossibile scappare. E forse, proprio per questo, la miglior cosa da fare è abbracciare un tale destino, abbracciare il turbamento e l’inquietudine, in quella calma atarassica di chi sa che non avrebbe potuto fare niente di più di tutto quello che ha già fatto.