Paul Thomas Anderson è senza ombra di dubbio uno degli autori di punta del nuovo cinema statunitense. Vincitore dei maggiori premi nei principali festival mondiali (tra cui un’Orso d’Oro a Berlino, un Leone d’Argento a Venezia e il Premio alla Miglior Regia a Cannes), il cineasta californiano si è sempre contraddistinto per uno stile ricercato e complesso sin dai suoi primi lavori, dimostrandosi negli anni a venire un raffinato esteta e un abile sceneggiatore. Si potrebbe definire il suo cinema come una perfetta sintesi tra il classicismo formale della vecchia Hollywood e la narrazione vibrante del postmodernismo americano, ma quel che più lo contraddistingue è il tocco personalissimo di un autore che ha una predilezione per il racconto di uomini soli e incompresi, incapaci di mantenere il controllo della propria vita.
SYDNEY (1996)
Paul Thomas Anderson aveva solamente 26 anni, eppure con un film d’esordio tutt’altro che modesto sembrava aver già chiara in mente quale sarebbe stata la direzione futura del proprio cinema. Presentato nella sezione Un Certain Regard alla 49ª edizione del Festival di Cannes, Sydney (titolo originale Hard Eight) è un neo-noir dai toni scorsesiani in cui fanno già capolino molti dei topoi e degli stilemi più rappresentativi della poetica del regista (piani sequenza, pochi tagli di montaggio, un approccio a volte corale e la frequente riproposizione della figura di un mentore).
Protagonista è Sydney (Philip Baker Hall), anziano giocatore d’azzardo professionista che incontra un giovane spiantato (John C. Reilly) a cui impartire tutti i suoi insegnamenti. Lo scopo del gambler è aiutarlo a vincere la somma necessaria per pagare il funerale della madre, ma un passato rimosso tornerà a tormentare la vita dei due, costringendoli a fronteggiare sfide inattese.
Nonostante una narrazione forse troppo schematica e una natura essenzialmente derivativa con pochi guizzi originali, Sydney si fa subito notare per la padronanza tecnica del regista – pur ancora acerbo – e soprattutto per l’eccellente direzione degli attori. Anderson desta grande interesse sin dal suo debutto.
BOOGIE NIGHTS – L’ALTRA HOLLYWOOD (1997)
Il titolo del film in un’insegna luminosa fucsia, la macchina da presa che fluttua in un’altra direzione e tallona quindi un uomo con un sigaro in bocca all’entrata di un discobar, la moltitudine di personaggi che uno ad uno ci vengono presentati al suo interno, e la San Fernando del 1977 che ci scorre davanti sulle note di Best of My Love dei The Emotions. Impossibile scrivere di Boogie Nights senza menzionare quel suo pianosequenza iniziale che introduce efficacemente e prodigiosamente la dissoluta America degli anni ’70. Un microcosmo di emarginati e personaggi squisitamente glamour in un racconto corale alla Altman, che ha il proprio focus nell’industria cinematografica del porno mentre stava vivendo il suo periodo più fortunato.
La pellicola, che narra l’ascesa e il declino di un giovane attore erotico della California, è un ritratto affettuoso di quegli anni, di un’America che non esiste più, di una Hollywood altra, appunto, mutata ormai in qualcosa che non ha più niente di artistico.
Anderson ne diventa quasi un apologeta e ne traduce gli intenti con una messa in scena virtuosa, dai colori esuberanti, ricca di personaggi e con un cast sublime – su tutti Burt Reynolds nei panni del regista James Horner e Mark Wahlberg in quelli del protagonista. Intravediamo per la prima volta il talento sopraffino di un vero autore: la visione del regista inizia a farsi più chiara e delineata; la sua capacità di gestire grandi affreschi narrativi si prepara a sbocciare.
MAGNOLIA (1999)
Boogie Nights portò un successo di critica e pubblico considerevole al giovane Anderson. I produttori della Ghoulardi, con cui aveva collaborato per il film con Wahlberg, gli diedero quindi carta bianca per il nuovo progetto e il regista ottenne il final cut ancor prima di aver chiaro in mente il soggetto: un nuovo racconto corale che indagasse la contemporaneità e la sofferenza umana.
Come un fiore i cui petali fioriscono da un unico bocciolo, così il racconto di Magnolia si dischiude in un cantico affollato da personaggi legati tra loro per sangue o per destino, accomunati dall’incombenza di catastrofi imminenti. Vittime e insieme carnefici, i comprimari di Magnolia convivono con un passato da cui è impossibile fuggire, attanagliati da un senso di colpa che ne corrode l’esistenza. Tra essi troviamo un guru televisivo maschilista e problematico (Tom Cruise) e un poliziotto goffo (John C. Reilly) che si innamora di una cocainomane (Melora Walters), a sua volta figlia di un presentatore televisivo in fin di vita (Philip Baker Hall) che ospita nel proprio quiz show un piccolo genio manipolato dal padre. Al loro fianco un vecchio magnate del mondo dello spettacolo (Jason Robards) ormai morente, la moglie depressa (Julianne Moore) e l’infermiere che lo assiste (Philip Seymour Hoffman). Farà la sua comparsa anche un ex bimbo prodigio di What Do Kids Know? ormai dimenticato da tutti e senza un lavoro (William H. Macy).
La crescita artistica di Paul Thomas Anderson va di pari passo con quella di alcuni dei suoi attori, e il debito artistico verso Altman viene confermato in più di un passaggio – si pensi alla pioggia di rane, chiaro riferimento al terremoto di America Oggi.
L’impronta autoriale di Anderson sembra ormai ben delineata e il film regala molti momenti memorabili e carichi (fin troppo) di emozione, come quello bellissimo in cui i protagonisti cantano quasi come in un musical Wise Up di Aimee Mann. Il linguaggio di Anderson sta però per subire una svolta radicale.
UBRIACO D’AMORE (2002)
Nessuno, guardando Boogie Nights o Magnolia, si sarebbe potuto aspettare come film successivo un ibrido tra un dramma psicologico perturbante e una commedia sentimentale, né tantomeno avrebbe potuto immaginare Adam Sandler come protagonista. Anderson abbandona la coralità e sorprende tutti giocando con quello che potrebbe erroneamente sembrare un genere più accessibile, liberandolo però da ogni cliché e affidandosi per la prima volta completamente al non detto e a un unico protagonista maschile con una psiche tormentata.
In Ubriaco d’Amore (titolo originale Punch-drunk Love) Sandler interpreta Barry, un uomo introverso e disturbato che è cresciuto all’ombra di sette sorelle che l’hanno sempre sminuito. Barry vive in un perenne stato d’ansia che sfocia spesso in accessi di rabbia violenta; quando però incontrerà la dolce Lena (Emily Watson), scoprirà per la prima volta una dimensione individuale e qualcuno in grado di aver bisogno di lui.
Con uno stile difficilmente definibile e per nulla ruffiano, il regista dà forma a una storia d’amore tanto dolce quanto fuori dal comune, il cui valore aggiunto è nella capacità di Anderson di trasformare un comico amato per le sue pellicole frivole in un validissimo interprete. Sandler, magnificamente diretto nei panni di un adulto sentimentalmente immaturo, riesce al contempo a intimidire e a risultare melenso. Vincitore del Premio alla Miglior Regia alla 55ª edizione del Festival di Cannes, P.T. Anderson spiazza tutti e, col senno di poi, si affranca completamente dalle influenze dei suoi maestri per delineare la propria personalissima poetica, che ritroveremo nella quasi totalità dei suoi film successivi.
IL PETROLIERE (2007)
Dopo aver passato anni a cercare di far funzionare una sceneggiatura su due famiglie tra loro rivali, Anderson abbandona il progetto e decide di optare per un libero adattamento del romanzo Petrolio! di Upton Sinclair. Siamo nel 1898, un minatore scopre una cava nel sottosuolo. Un’esplosione ne scuote le fondamenta, qualcuno muore tra le macerie e un liquido nero fuoriesce mischiato al sangue: l’America scopre il petrolio. Quello de Il Petroliere (titolo originale There Will Be Blood) è uno degli incipit più significativi e grandiosi della storia del cinema; una sequenza di quindici minuti priva di dialoghi che racchiude in sé l’intero significato dell’opera, che è al contempo l’affresco storico di un paese e il racconto della nascita, dell’ascesa e della caduta di un uomo determinato a farsi strada nel mondo.
Lo sfondo è quello di un’America da far west dove l’oro nero e il denaro sono tentazioni mefistofeliche, fragili fondamenta per una nuova “Nascita Di Una Nazione” che viene riverberata nella figura del protagonista consumato dalla propria volontà di affermazione, interpretato magistralmente da Daniel-Day Lewis. L’incisività della rappresentazione, la struttura della pellicola e la ‘doppia epica’ fanno de Il Petroliere una delle opere cardine del 21° secolo, che per forma e tematiche si pone al fianco del suddetto capolavoro di David W. Griffith, ma anche del Rapacità di Von Stroheim o del Quarto Potere di Welles.
Al suo quinto film P.T. Anderson viene premiato con l’Orso d’Argento per la regia alla Berlinale, e vede il suo protagonista premiato con l’Oscar, così come il suo direttore della fotografia Robert Eswit. Inizia il sodalizio artistico con Jonny Greenwood (chitarrista dei Radiohead), che ne comporrà tutte le colonne sonore successive.
La regia di Anderson sprigiona ormai una potenza creativa incontenibile, che ne fa uno dei più grandi cineasti della sua generazione.
THE MASTER (2012)
Presentato alla 69ª edizione della mostra del Cinema di Venezia, dove vinse il Leone d’Argento per la Miglior Regia, The Master nasce da un’idea che Anderson coltivava da 12 anni. Il film racconta l’incontro tra Freddy Quell (Joaquin Phoenix), reduce di guerra dai modi brutali e in pieno disturbo post-traumatico, e il meditativo Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), filosofo e fondatore carismatico di un nascente movimento spirituale. La storia di due uomini diversissimi che però si somigliano nel loro sentirsi soli perché incompresi, ma anche – come il film precedente – il ritratto di un’America che cambia.
Quelli messi in scena da Paul Thomas Anderson sono due personaggi completamente antitetici: l’uno allo sbando e l’altro saggio, l’uno bisognoso di punti di riferimento e l’altro mosso dall’ambizione di essere una guida verso l’elevazione dell’animo umano. Un incontro tra spirito dionisiaco e spirito apollineo in una sintesi inusuale, destinata a spezzarsi.
Il regista dimostra ormai una padronanza tecnica inarrivabile e, come già accadeva in Punch-drunk Love, non esprime alcun giudizio né cerca di guidare lo spettatore, ma anzi lo mette davanti ai labirinti della psicologia umana senza fornire alcuna mappa. Phoenix e Hoffman ci regalano quelle che forse sono le migliori interpretazioni della loro carriera, e Anderson ormai ambisce non solo a segnare il presente, ma a lasciare un segno indelebile nella storia del cinema. Un film che è forte di una poetica matura, a cui seguirà però una divagazione inaspettata.
VIZIO DI FORMA (2014)
Los Angeles, 1970. Larry “Doc” Sportello (Joaquin Phoenix) è un investigatore privato dall’aria distratta a cui viene affidato un caso dalla sua ex, che vorrebbe indagare alcune questioni riguardanti il miliardario Mickey Wolfmann, prima che la moglie lo spedisca in un ospedale psichiatrico. Tra droghe, alcol, sesso, personaggi eccentrici e situazioni inverosimili, Doc inizierà un percorso ai limiti dell’assurdo. Basato sull’omonimo romanzo di Thomas Pynchon, Vizio di Forma (titolo originale Inherent Vice) è un noir allucinato e allucinante, caratterizzato da una sceneggiatura lisergica, densa e tortuosa, e da un tono grottesco che stordisce e disorienta lo spettatore.
La penna di Anderson ricalca il non-sense e l’illogico, ridefinendo il film in un’ottica più onirica che razionale, per carpire la perdita dell’innocenza della cultura americana tra gli anni Sessanta e Settanta, in piena esuberanza hippie. In questo senso la guerra in Vietnam, il conservatorismo nixoniano, l’efferatezza degli omicidi di Manson (tutti avvenimenti citati nel film), rappresentano per il regista la fine dell’utopia a stelle e strisce; il “vizio intrinseco” del sogno americano, da cui i protagonisti si stanno risvegliando.
Iniziata con la folgorante scoperta dell’oro nero ne Il Petroliere e proseguita nello smarrimento post-bellico e nella necessità di un nuovo inizio propria degli anni ’50 con The Master, Anderson chiude così una sorta di trilogia sulla storia americana e suoi cambiamenti socio-culturali più significativi. Non uno dei suoi film più amati dal pubblico, ma una sintesi sui generis di tutta la filmografia del regista; degli stili, dei personaggi e dei temi con i quali si è misurato nel corso degli anni.
IL FILO NASCOSTO (2017)
Ambientato nella Londra anni ’50, il film si focalizza sulla figura sfuggente di Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis nell’ultima magistrale interpretazione della sua carriera), rinomato stilista britannico il cui unico legame profondo è con l’onnipresente sorella (Lesley Manville). Quando nella sua rigida vita entrerà la giovane Alma (la sorprendente Vicky Krieps), dovrà affrontare una ventata di emozioni contrastanti che riuscirà a gestire solo nel più imprevedibile dei modi.
L’occhio e la penna di Anderson ormai sono di una grandezza trascendente, e laddove prima vi erano storie labirintiche e folle di comprimari, qui bastano poche pennellate giustapposte per suggerire vividamente un intero mondo interiore. Il vuoto che separa e unisce i tre personaggi diventa il vero protagonista del film, in un imperscrutabile gioco di dominazione, che rivela nei piccoli dettagli quanto di morboso e inesplicabile possa nascondersi nelle relazioni umane, anche nelle più ordinarie. Anderson non ha più bisogno nemmeno di un direttore della fotografia, e se i meravigliosi costumi non possono che esser premiati con l’Oscar è in realtà la conturbante colonna sonora di Greenwood ad annidarsi nella mente dello spettatore.
Il Filo Nascosto (titolo originale Phantom Thread) rappresenta una delle più alte vette artistiche raggiunte dal regista; un film misterioso e affascinante, che ricordando tanto il soggetto di Punch-drunk Love quanto le atmosfere di The Master, conferma Anderson come uno dei più grandi registi della storia del cinema, che con una consapevolezza assoluta del mezzo sa sconvolgere pur mantenendo una misuratezza di tono che supera ogni virtuosismo.
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