Seven Seconds è il crime in dieci episodi che Veena Sud (creatrice di The Killing) ha sviluppato per Netflix. Basata sul lungometraggio russo The Major, la serie è ambientata a Jersey City (a circa cinque chilometri da Ellis Island). Guardando il trailer, il primo pensiero che viene in mente è quello di uno show sul razzismo. Non è esattamente così: Seven Seconds parla sì di razzismo ma il suo tema centrale è quello del pregiudizio.
“White cop, black kid” ci dice un poliziotto, uno degli sbirri implicati nella tragedia che scatena gli eventi. Nei primi minuti infatti vediamo Peter Jablonsky (Beau Knapp), un ragazzo bianco, distratto dalla propria vita e dal telefonino mentre guida in mezzo ad un paesaggio innevato. Colpisce qualcosa. Solo in un secondo momento si rende conto, con orrore, di aver investito un essere umano. Fin qui di razzismo non c’è traccia, dato che si tratta di una tragica fatalità che sarebbe davvero potuta capitare a chiunque. Da qui in avanti però il pregiudizio entrerà in gioco.
“White cop, black kid”. Ovvero: fai due più due. La stampa, l’opinione pubblica, il PM: tutti griderebbero al crimine d’odio. E mentre i personaggi di Seven Seconds traggono le loro conclusioni, sullo sfondo la Statua della Libertà ci dà le spalle. Dà le spalle alla tragedia appena avvenuta così come alla terribile decisione di coprire il white cop, di insabbiare, di trovare qualcuno a cui dare la colpa dell’incidente, qualcuno che sia sacrificabile tanto quanto la vittima per non dare possibilità al mondo di parlare nuovamente di razzismo.
Non possiamo evitare di vedere nella messa in scena una continuità con alcuni argomenti trattati anche in The Killing: la morte di un adolescente, il lutto dei genitori, una lunga indagine ostacolata dal “sistema” e una coppia – una donna alla guida e un uomo come spalla – alla ricerca della verità. Nella serie AMC avevamo una detective emotivamente fragile e caparbia, affiancata da un partner controverso ma buono; in Seven Seconds abbiamo KJ Harper (Claire-Hope Ashitey), una giovane prosecutor afroamericana con problemi di alcolismo e con i faldoni dei casi che segue disordinati tanto quanto il suo appartamento. KJ è affiancata da Joe “Fish” Rinaldi (Michael Mosley, Drew Suffin di Scrubs), il detective dalla battuta pronta generalmente simpatico, una di quelle persone blandamente razziste che non sanno di esserlo.
The Killing, sorella maggiore di Seven Seconds, è uno show che in gergo viene chiamato whodunit, un genere in cui lo spettatore segue le indagini passo dopo passo con l’investigatore, districandosi tra indizi, sospetti e interrogatori per arrivare finalmente a dare un volto a chi ha commesso il crimine. Ed è qui che sta la più grande differenza estetica tra le due serie di Veena Sud: in Seven Seconds, infatti, il pubblico non si colloca sul sedile posteriore dell’auto del detective, ma molto più in alto. Sappiamo tutto – o quasi – e lo sappiamo fin da subito. Sappiamo chi muore, quando e per mano di chi. Il fatto di non dover indagare insieme a KJ e Fish è certamente una scelta degli autori: mentre i buoni si attivano alla ricerca di testimoni (con i cattivi che provano a coprire le proprie tracce), allo spettatore resta il tempo per scuotere la testa e riflettere sulla colpa. Una colpa che sguazza nel pregiudizio.
Col razzismo sullo sfondo, Seven Seconds parla anche di omosessualità, di genere, di fede. Nessuna di queste tematiche però è approfondita fino in fondo: sono presenti tantissimi spunti di riflessione che restano solo tali. Questa è la debolezza e, allo stesso tempo, la forza di Seven Seconds: è vero che lo show non scende sufficientemente in profondità ma lo spettatore può scegliere la tematica che più di altre ha qualcosa da comunicargli per scoprirne le piccole tracce qua e là, puntata dopo puntata.
Seven Seconds non è potente quanto avremmo voluto, non è incisiva come i tristi fatti di cronaca che l’hanno ispirata e la maggior parte dei personaggi non hanno una caratterizzazione soddisfacente come in altre serie (come ad esempio John Stone, l’avvocato interpretato dall’immenso John Turturro in The Night Of). Il white cop Mike DiAngelo (David Lyons) è uno sbirro della narcotici, cattivo e corrotto. Non ha zone grigie, non c’è dubbio né incertezza nel suo animo: è solo malvagio e codardo.
I buoni invece sono di tutt’altra pasta: la giovane KJ è così patetica da fare tenerezza; sotto la sua scorza di disillusione, tra un drink e l’altro, si nascondono paura, senso di colpa e un briciolo di speranza. L’interpretazione della Ashitey però è oscurata da una straordinaria Regina King (American Crime e The Leftovers) nei panni della mamma di Brenton, il black kid che viene investito all’inizio della serie (insieme a Russell Hornsby, che interpreta il padre del ragazzo). Quando i genitori sopravvivono ai loro figli si crea una condizione quasi contro natura: è in questo tipo di dolore che si immergono i coniugi Butler, esplorando uno degli esempi di genitorialità raccontata in Seven Seconds. Oltre a loro ci sono anche neo genitori e genitori indifferenti: abbiamo una coppia che non può avere bambini e poi ci sono i divorziati, che dovranno contendersi la crescita della loro figlia, ma anche un padre violento e una madre vittima.
Le dieci puntate di Seven Seconds hanno un lento incedere, che può essere scoraggiante per il pubblico nel format di un episodio a settimana, ma la fruizione di Netflix è un’altra cosa e con il play automatico la serie si lascia guardare: aspettando un twist, un colpo di scena, un guizzo qualunque si finisce con l’affezionarsi a KJ, ai genitori di Brenton e a suo zio Seth, un veterano che non trova lavoro e che, amaramente, capisce che se fosse morto in Afghanistan sarebbe diventato un eroe mentre morire nel proprio Paese lo renderebbe solo un altro teppista di strada.
A tutti questi personaggi, da Brenton all’ultimo senzatetto di Jersey City, la Statua della Libertà volta le spalle, indifferente al mare di pregiudizi in cui rischiano di annegare.
Netflix ha annunciato che non è prevista una seconda stagione della serie.