Trentaquattro episodi, tre stagioni e tre anni di lavoro incentrati su due main character: lo show Netflix Love ha scelto una strada molto rischiosa e, facendo un bilancio finale, questa soluzione si è rivelata un’arma a doppio taglio. Judd Apatow, Paul Rust e Lesley Arfin, creatori e produttori esecutivi della serie (il secondo interpreta anche il protagonista maschile), hanno puntato unicamente sulla storyline romantica tra Mickey e Gus lavorando al servizio del loro rapporto ma, in questo modo, si sono preclusi la possibilità di raccontare qualcosa di molto più interessante: un’intera generazione – quella dei trentenni – e una città, Los Angeles.
Apatow, con 40 Anni Vergine, Questi Sono I 40 o Freaks And Geeks, aveva dimostrato di saper rappresentare le fasi irrisolte della vita, quei momenti di transizione dove si compiono le scelte più importanti. Nella seconda stagione, Love metteva sempre i protagonisti in condizione di poter sbagliare. Oltre a ciò il personaggio di Bertie (Claudia O’Doherty), giovane australiana in cerca di fortuna negli Stati Uniti, aveva portato con sé un nuovo punto di vista nei confronti della metropoli californiana, da sempre luogo in cui i sogni possono diventare realtà.
Nella final season, invece, non accade nulla di sorprendente: non ci sono scelte drastiche, bivi o momenti di particolare interesse. Al contrario, tutto è terribilmente prevedibile.
IL FASCINO DI UNA CITTÀ COME LOS ANGELES
Tuttavia Love quest’anno ha dimostrato di poter egregiamente raccontare altro: nel quinto episodio infatti Bertie e uno dei character secondari – la cui importanza, ai fini della trama, è praticamente nulla – escono per la città. Lui la porta a vedere il wrestling in uno scantinato nel quale si radunano un gruppo di appassionati. A questo punto, parecchio divertita, Bertie esclama: ”A Los Angeles le cose più divertenti accadono nei posti più insoliti”.
Questo è il frangente più romantico, divertente e realmente interessante di questa terza stagione. Conosciamo un ambiente diverso, alternativo al solito set cinematografico o televisivo: quello del wrestling di bassa lega, un pò come quello rappresentato nel film di Darren Aronofsky The Wrestler o in GLOW (altra produzione Netflix). Soprattutto abbiamo finalmente un momento di tregua dalla claustrofobica relazione tra Gus e Mickey. Conosciamo due personaggi alternativi, con personalità e modi di parlare diversi.
Ecco, il capitolo finale di Love avrebbe avuto bisogno di più puntate del genere: Gus e Mickey sono insopportabili e irritanti, come lo sono sempre stati. Il protagonista interpretato da Paul Rust, in particolare, è insostenibile per la sua voce stridula, per il suo atteggiamento verso gli altri e per come è stato dipinto dallo script, un vero e proprio fallito (nonostante un passato da artista promettente). Mickey invece perde tutta la sua irriverenza, la sua simpatia e quel carisma che, associato alla bellezza di Gillian Jacobs, l’aveva resa agli occhi del pubblico così affascinante.
CHE COSA RIMANE DUNQUE?
Dodici episodi (se escludiamo il quinto) poco intriganti e dall’esito scontato, in cui i due fidanzati riescono ad avere successo in ambito lavorativo e a consolidare il loro rapporto di coppia. Mickey e Gus si svelano segreti (anche se la ragazza non confessa proprio tutto) e si fanno promesse a vicenda, con un finale di serie che si sviluppa in maniera anticlimatica e apparentemente casuale. Le idee e le innovazioni quest’anno sono mancate: la scelta di non cambiare canovaccio alla fine non ha pagato; gli autori hanno scelto di non lasciar evolvere lo show ma la decisione si è rivelata purtroppo fallimentare.
Lasciamoci definitivamente alle spalle la rom-com di Netflix e attendiamo il ritorno di Judd Apatow con un prodotto audiovisivo in grado finalmente di mettere in mostra il suo talento.