Presentato alla Settimana Internazionale della Critica durante la 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, vincitore del Premio Speciale della Giuria e ora nelle nostre sale grazie a La Sarraz Distribuzione, Il Cratere è un film straordinario, sospeso tra finzione e documentario, che racconta l’ostinazione di un padre nel cercare di garantire alla giovane figlia un futuro come cantante neomelodica.
Una storia di riscatto e ribellione, lontana da ogni stereotipo e messa in scena con uno sguardo magnetico, che con animo verista racconta quel mondo in cui della speranza non arriva nemmeno il profumo, ma in cui si è costretti con determinazione a dimenarsi scompostamente per sopravvivere all’apatia.
Abbiamo avuto l’onore di un’intervista esclusiva con Luca Bellino e Silvia Luzi, i registi del film, che hanno offerto un ritratto completo e interessantissimo del grande lavoro dietro la loro opera di debutto al lungometraggio di finzione.
– Silvia e Luca, venite da un lungo percorso nel documentario, in cui avete più volte affrontato le molte facce del tema della ribellione. Scegliere quella che in qualche modo è una storia di ‘ribelli’ – verso l’ostile indifferenza del ‘cratere’ e verso la famiglia – anche per il vostro debutto al lungometraggio di finzione è un proseguimento naturale in questo senso?
– Più che un proseguimento è un inabissamento. Volevamo ripartire da zero, cercare di capire perché oggi sia impossibile anche solo immaginare una forma di ribellione, e abbiamo scelto di raccontare il grado zero di ogni rivoluzione, che per noi è la famiglia. La famiglia è il germe della rabbia e dell’amore, il luogo in cui impariamo le regole, e impariamo a non rispettarle. E la scelta di inserire la musica neomelodica, che del nostro film è la miccia, è figlia dello stesso pensiero. Perché è musica popolare, indipendente, denigrata, ma restìa a ogni tipo di regola.
– Prima di imbattervi negli attori protagonisti Sharon e Rosario Caroccia, eravate pronti a girare una versione de Il Cratere potenzialmente molto diversa, per cui eravate anche vicini a chiudere il casting. Che storia sarebbe stata? Che film avremmo potuto vedere?
– Ci sarebbe stato un bar al posto di una casa e le slot machine al posto dei peluche. Ma per il resto crediamo sarebbe stato lo stesso film. In quel momento la nostra ricerca, e le nostre nevrosi, erano mature al punto giusto per esplodere in una sola direzione. Avevamo girato un promo un anno prima di iniziare le riprese e le inquadrature e i movimenti di macchina di quei pochi minuti sono identiche a quelle del film, cambiano solo i volti.
– Più che un cinema di finzione, quello de Il Cratere – in cui attori non professionisti interpretano una ‘versione alternativa’ di se stessi – è un cinema dell’ipotetico. In un’epoca minacciata della post-verità, paradossalmente questa ibridazione tra finzione e documentario rende ancora più autentico e ‘forte’ il racconto. Che rapporto c’è tra un momento storico in cui i contorni tra vero e falso si fanno sempre più sfumati e il vostro approccio a Il Cratere?
– La tua definizione di cinema dell’ipotetico ci convince, e la facciamo nostra. È proprio perché abbiamo visto progressivamente svanire i confini tra vero e falso nel corso degli ultimi anni che abbiamo deciso di intraprendere la ricerca che è poi confluita nella lavorazione de Il Cratere. Il nostro lavoro ‘teorico’ parte dall’idea che il racconto debba avere una base forte di realtà ma che questa realtà, per esplodere in narrazione ed essere veramente autentica, debba essere deteriorata, o distrutta.
– Che si tratti di un balletto ripetuto mnemonicamente, della voce cantilenante di una giostraia, dell’attenta selezione degli occhi di peluche distrutti o di un’imperfezione vocale impercettibile ma costante, ne Il Cratere ricorrono scene lunghissime e insistite che ritraggono momenti ipnotici e surreali, caratterizzando profondamente il film. Come siete arrivati a questo linguaggio?
– Volevamo far coincidere il tempo delle riprese, il tempo che noi viviamo, che solo il regista può vivere, con il tempo del racconto filmico. Ma questo non si traduce solo nel rispetto del tempo reale. Abbiamo cercato di elaborare uno stile che ci permettesse allo stesso tempo di essere i personaggi e stare con loro, ed essere anche spettatori di questa simbiosi. Abbiamo cercato il fastidio e la noia, la fascinazione estetica e la carezza di uno sguardo. Tutto insieme. E poi, il suono. Incombente e insisitito, che va di pari passo con questa idea. Il suono della voce dei personaggi e quello del ‘cratere’ che entra nelle loro vite appiccicandogli addosso il malessere.
– In che modo gestite il lavoro in tandem – che evidentemente funziona bene, vista la lunga durata del sodalizio?
– Litighiamo, litighiamo e litighiamo. In un’eterna lotta tra il forzato ottomismo di Luca e l’inossidabile pessimismo di Silvia. Quando non discutiamo ferocemente, scriviamo a quattro mani, giriamo a quattro mani, montiamo a quattro mani, laddove le mani spesso si confondono e non conta mai chi fa cosa. Però gestiamo in modo totalmente diverso il rapporto con gli attori. Silvia è quella tenera ma severissima, Luca è quello burbero ma solidale.
– Avete lavorato al documentario con grande successo sia per la tv che per il cinema. In cosa differisce il lavoro dietro la macchina da presa quando si lavora per un canale distributivo piuttosto che per l’altro?
– Il Cratere è forse la prima volta che siamo stati liberi di fare quello che volevamo, senza abbandonarci al mestiere o agli obblighi formali della televisione. Ma tutto il resto è gavetta, professionale e umana. Ogni editore ha una sua linea, ogni canale distributivo ha i suoi paletti. Abbiamo sempre cercato di muoverci rispettando le richieste, ma senza mai tradirci.
– Nel lungo periodo che ha separato la presentazione de Il Cratere alla SIC a Venezia dall’uscita in sala, siete sempre stati accompagnati da Rosario e Sharon Caroccia, che necessariamente sono progressivamente entrati in contatto con una realtà molto diversa da quella del loro ‘cratere’. Come li avete visti cambiare?
– Rosario è più sicuro di sé, anche se in pubblico ancora si vergogna. Sharon ha continuato a non prendere niente sul serio. Le chiedono autografi, i critici la osannano, è convocata per provini importanti, ma per lei i problemi restano gli stessi di sempre, il colore delle unghie, il compito in classe, e quale nuovo romanzo horror dovrà leggere.
– Ci dareste qualche anticipazione sui vostri prossimi lavori da registi (o sui progetti che state valutando)?
– Aspettiamo di uscire dal frullatore dell’uscita e della promozione. Poi torneremo nel cratere, che ci aspetta.