Netflix è una piattaforma che nel corso degli anni ha sviluppato una vocazione internazionale, proponendo in maniera sempre più frequente prodotti provenienti da tutto il mondo: un esempio è Tabula Rasa, serie belga che, dopo il grande successo ottenuto in patria, sbarca in tutti i paesi dove il web service è presente (Italia compresa). Disponibile sulla piattaforma dal 15 marzo, Tabula Rasa (show creato da Malin-Sarah Gozin) è un’opera che mescola giallo, horror e thriller: gli elementi peculiari di questi generi sono ricorrenti in tutte e nove le ore che compongono la serie, grazie all’utilizzo di stratagemmi classici e soluzioni narrative collaudate.
PROTAGONISTA DELLO SHOW È UNA DONNA VITTIMA DI AMNESIA
La memoria di Annemie D’Haeze (Veerle Baetens, già vista nello splendido Alabama Monroe – Una Storia d’Amore) è danneggiata: ricorda poco, saltuariamente e in modo frammentario. In teoria sarebbe una storia sfortunata come tante altre, se Annemie non fosse coinvolta in un caso di sparizione. Thomas de Geeste (Jeroen Parceval) è introvabile da giorni e Annemie è l’ultima persona che è stata vista in sua compagnia. L’ispettore Wolkers (Gene Bervoets) è incaricato di risolvere il caso, scontrandosi costantemente con la frustrazione di dover scavalcare quello che sembra l’insormontabile ostacolo mnemonico della sua principale testimone. Seguita dalla sua psichiatra, la dottoressa Mommaerts (Natali Broods), Annemie scava nel suo passato sostenuta dal marito Benoit (Stijn Van Opstal) fin quando, tra colpi di scena e false identità, non riesce finalmente a ricordare.
UNA COMMISTIONE DI GENERI CHE NON SEMPRE FUNZIONA
Le ottime interpretazioni di Veerle Baetens, Peter Van den Begin e di Cécile Enthoven, l’impeccabile fotografia e l’intensità evocativa delle scene più dark (pregi indiscussi della serie) si accompagnano ad alcune debolezze di fondo. Specialmente nelle prime puntate, i continui salti temporali (la struttura della trama di Tabula Rasa è basata su una successione di flashback) e la sceneggiatura non brillantissima, che insiste continuamente su alcuni dettagli in modo ripetitivo, non riescono a tenere alta la suspense (il mix produce un ritmo poco incalzante). Lo show, indebolito inizialmente da un andamento monotono (con frequenti déjà vu e puntate intere prive di eventi rilevanti), chiede allo spettatore di pazientare fino a metà stagione: dopo qualche episodio infatti i fantasmi appena accennati prendono forma e le prime tracce cominciano a far luce sul mistero. La scelta di costruire la storia sui flashback, che accompagnano il crescente recupero della memoria da parte di Mie, farebbe presupporre una tensione costruita con il progressivo disvelamento degli indizi. Tuttavia non è così: si preferisce buttare in faccia a chi guarda il colpo di scena e solo successivamente spiegarlo, vincendo la sfida in termini di impatto immediato ma, nel lungo periodo, facendo calare vistosamente il coinvolgimento del pubblico.
“Io credo nella giustizia, ma non nei tribunali” è la frase chiave dell’ultima puntata che ci descrive Tabula Rasa come un corso di eventi slegato dalle autorità tradizionali, capace di discostarsi dal prestabilito e seguendo uno sviluppo in cui polizia, ispettori e psicologi arrivano troppo in ritardo per scoperchiare il profondo vaso emozionale che costituisce la forza motrice degli accadimenti. I sentimenti folli e irrazionali, così come la malattia mentale, influenzano di fatto le nove ore del prodotto audiovisivo belga, condizionando anche il suo controverso finale.