Alcune delle più belle sceneggiature del cinema recente portano la sua firma: The Social Network, Moneyball, Steve Jobs (più un contributo da script doctor, mai accreditato, nello Schindler’s List di Spielberg). Insomma, una cosa su Aaron Sorkin la sapevamo già: il ragazzo sa scrivere. Soprattutto quando si tratta di filtrare e raccontare delle storie vere, trasformandole, attraverso lo script cinematografico, in manifesti sociali e umani quasi universali. Quello che invece ancora non sapevamo era se il più brillante autore di testi della sua generazione sapesse anche dirigere, coinvolgere il proprio occhio oltre che la propria penna, restituendo per immagini la sua grande capacità di scrittura. È con questo Molly’s Game, film che si muove spesso sullo sfondo di un tavolo da poker, che Sorkin scopre a sua volta tutte le sue carte: si mette al tavolo da gioco e, per la prima volta, anche dietro la macchina da presa.
La vera storia di Molly Bloom
La storia adottata da Sorkin è quella di Molly Bloom e si basa sul relativo libro di memorie dal titolo lunghissimo (Molly’s Game: From Hollywood’s Elite to Wall Street’s Billionaire Boys Club, My High-Stakes Adventure in the World of Underground Poker). La Bloom (Jessica Chastain), giovane speranza dello sci a un passo dalla sua prima olimpiade, è costretta ad abbandonare lo sport dopo un incidente in pista che vanifica tutti gli sforzi del padre Larry (Kevin Costner) di farla diventare una campionessa. Dopo gli studi in legge e qualche lavoretto senza pretese, Molly viene coinvolta nel mondo del poker clandestino, scalando presto l’organizzazione di cui fa parte e diventando lei stessa la coordinatrice della propria poker room. Un club riservatissimo ed esclusivo capace di accogliere ai tavoli grossi portafogli, quelli degli affaristi e industriali, delle stelle di Hollywood, dei giganti dello sport: un microuniverso di personaggi eccentrici e misteriosi (come il Mister X interpretato da Michael Cera) che presto attirerà le attenzioni sbagliate, compresa quella non troppo gentile della mafia russa. Quando Molly Bloom verrà arrestata in piena notte da 17 agenti dell’FBI la sua strada incrocerà quella dell’avvocato difensore Charlie Jaffey (Idris Elba): inizialmente esitante ad abbracciare la causa di Molly che nel frattempo è finita sui giornali per i suoi collegamenti con il mondo dei vip e delle celebrity.
Una carta dopo l’altra
L’apparente linearità narrativa della storia di Molly Bloom viene intricata da Sorkin in un montaggio complesso, attraverso un sapiente utilizzo di flashback/flashfoward e partendo da molto lontano: una pista di sci in Colorado, una gara pre-olimpionica, l’incidente della protagonista che la proietta violentemente e inevitabilmente in un’altra vita, quella di una organizzatrice di bische clandestine. In mezzo l’arresto, l’incriminazione, l’incontro con l’avvocato Jaffey e il racconto vero e proprio che ricompone le vicende, pubbliche e private, della protagonista. Una vicenda disarticolata dunque in vari episodi, come quando il banco da gioco scopre, una per una, le carte in tavola durante una partita di Texas Poker: allo stesso modo la psicologia della Bloom si materializza lentamente ed esplode solo alla fine, scoprendo l’ultima carta durante uno dei dialoghi più belli incisivi dell’intero film, quello tra Molly e il padre Larry. Eppure, nonostante la dilatazione temporale importante (centoquaranta minuti pienissimi) Sorkin tiene, al solito, l’acceleratore premuto sui testi. La signora del venerdì di Howard Hawks (pellicola fondamentale per capire l’approccio di Sorkin alla sceneggiatura) contava circa 240 parole al minuto (cronometrate), Molly’s game si aggira probabilmente sulle stesse cifre: la tempesta di monologhi e dialoghi è tipicamente fitta e compatta ma, e qui sta l’incredibile forza di Sorkin, non annoia mai. Attraverso sottili componimenti dialogici, che spezzano le conversazioni più serie con battute e digressioni, la scrittura di Sorkin riesce sempre a sfiorare un impianto teatrale senza mai rimanerne invischiato. E anche in quei rari casi in cui alle parole deve sostituire le immagini, l’autore non rimane senza bussola, anzi: riesce invece a imbastire una messa in scena pulita e magistrale, dimostrando di aver ben assorbito la lezione da alcuni grandi registi che in passato hanno diretto le sue sceneggiature (Fincher e Boyle, per dirne due) ma anche di aver risentito positivamente di alcuni echi filmici dove il gioco d’azzardo e la truffa giocano ruoli principali: siano essi recenti (American Hustle) o più antichi e prestigiosi (Casinò di Martin Scorsese).
L’eccellenza nella sconfitta
Certo, se non fosse per i grandi attori che vanta Molly’s game forse nemmeno Sorkin riuscirebbe a far parlare così bene i suoi personaggi. C’è Elba che è un supporter tanto fedele quanto diffidente, c’è Costner che è un padre-padrone-psicologo azzeccatissimo e c’è Michael Cera che spunta qua e là a impreziosire la narrazione. Eppure queste sono solo carte secondarie nel mazzo di Sorkin: l’asso nella manica è la Chastain, vero centro pulsante di tutto il film. La sua Molly è un personaggio straordinario, ibrido fatale di intelligenza e sensualità: quasi una mangiatrice di uomini che però non vedremo mai concedersi a nessuno dei maschi che le vorticano attorno, né con un bacio, né con qualcosa di più, rimanendo a una distanza diabolica e abissale dagli stessi fili che maneggia magicamente. Dopotutto, esattamente come l’imprenditore Steve Jobs e come il general manager Billy Beane, la Bloom ci appare come un concentrato di eccellenza, ambizione e tenacia, ma Sorkin, al solito, ci depista. Parte dalla copertina di un libro (lo stesso mal giudicato dall’avvocato Jaffey), dipinge un personaggio da tabloid per poi abbatterlo lentamente quasi nel suo contrario: da Dea dell’amore e regina del poker finiamo per affezionarci a un essere umano fragilissimo e abbandonato a se stesso. In fondo proprio in quel american dream incarnato nella Bloom l’errore di un attimo o la sfortuna di un singolo istante possono frantumare il sogno e generare un incubo. Ecco che la metafora sportiva, come in Moneyball, diventa umana e sociale e l’eccellenza della protagonista finisce per mettersi al servizio di un club ristretto di uomini composto da chi nella società americana conta davvero: i privilegiati, quelli a cui è consentito anche sbagliare, quelli che possono anche avere sfortuna, quelli che fuori dal binario, in ogni caso, non ci finiscono mai. Ma anche alla fine, quando il fallimento della Bloom sarà totale, Sorkin evita di mostrarci solo amarezza, di farci sentire la Chastain ancora più vicina, di fare insomma un all-in nel tragico e nel dolore: la sua eroina continua invece a respirare, continua a vivere, continua a combattere per quello che conta davvero. Un’eccellenza nella sconfitta, una morale nell’illegalità che è potentissima e che è forse l’unica vera essenza, da salvare, del sogno americano.
Dunque tornando al dubbio iniziale: Sorkin dietro la macchina da presa se la cava eccome e la usa nell’unico modo possibile per lui, giocando attraverso la riduzione degli spazi, evitando dei virtuosismi che non gli appartengono, concedendo terreno e respiro ai propri personaggi e alle loro evoluzioni psicologiche. Molly’s game è un Sorkin all’ennesima potenza e senza più filtri, è un cinema smaccatamente letterario, dal quel sapore nobile e raffinato dei “film di una volta” in cui a guidare la narrazione è una scrittura profonda e stratificata. Certo, è anche un cinema demodè che potrebbe non affascinare tutti: ma chi ama questo modo unico di raccontare le vite (e i mondi che le circondano) lo troverà un’opera enorme. Con buona pace di tutti quei codici cinematografici di cui, una volta tanto, possiamo fare anche a meno.