Riguardare la versione restaurata de I Mostri di Dino Risi, a più di cinquant’anni dal suo debutto al cinema, ci regala molteplici sensazioni. Da una parte attraversiamo con gli occhi un’Italia che non c’è più: è quella del boom degli anni ‘60, dei primi cittadini motorizzati FIAT, delle canzoni estive di Edoardo Vianello che risuonano nelle spiagge del Belpaese; dall’altra però la stessa Italia è rappresentata dai vizi e dalle debolezze degli italiani, meschini e terrificanti. Un ritratto corrosivo e grottesco dell’italiano medio che, in fin dei conti, ci assomiglia ancora tantissimo, rendendo questa pellicola ancora oggi sorprendentemente moderna.
VENTI EPISODI, DUE MATTATORI
C’è da dire che I Mostri era un progetto che vedeva inizialmente come produttore Dino De Laurentiis, con lo script originario di Age & Scarpelli ed Elio Petri dietro la macchina da presa (il protagonista assoluto doveva essere Alberto Sordi). Diventò invece un film prodotto da Mario Cecchi Gori e diretto da Dino Risi, con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, scritto da Age, Scarpelli e dallo stesso Petri assieme a Ettore Scola e Ruggero Maccari (che inventarono altri sketch). Alla fine saranno venti gli episodi concepiti dagli sceneggiatori (per un totale di quasi due ore di film) che raccontano piccoli frammenti di vita italiana ironici e spietati, con protagonisti macchiette dell’immaginario nostrano: padri di famiglia furbetti, attori snob, mariti gelosi, malati di calcio, politici corrotti, uomini di chiesa vanitosi e via dicendo. Dino Risi non risparmia nessun elemento della brulicante società italiana che si affacciava alla modernità e, grazie al reclutamento di due mattatori d’eccezione come Gassman e Tognazzi (che interpretano la gran parte dei personaggi), il regista finisce per regalarci un mix esilarante ma al contempo amarissimo, una critica sociale e umana quasi unica per l’epoca.
UN PUNTO DI NON RITORNO
D’altra parte già qualche anno prima, con Una Vita Difficile, Dino Risi aveva preso di mira il cinismo e l’ipocrisia dell’Italia del dopoguerra, osservati attraverso lo sguardo ideale e idealizzato di uno dei suoi personaggi più riusciti, Silvio Magnozzi (Alberto Sordi). Ma se in quel film il protagonista veniva rappresentato come un character contrapposto ad una società italiana che stava già sviluppando la propria deformità morale, Dino Risi ne I Mostri è più spietato: non c’è via di fuga alla totalizzante idiozia dell’italiano medio, non ci sono buoni o cattivi, ingenui o consapevoli, eroi o antieroi. L’autore milanese punta invece sull’iperbole, sugli strabordanti tic dei personaggi, sull’atmosfera surreale di alcune scene volutamente grottesche. È un punto di non ritorno per Dino Risi, in grado di ispirare qualche anno dopo un altro dei suoi capolavori, In Nome del Popolo Italiano: nel film del 1971, sempre con Gassman e Tognazzi, confonde il giudizio morale su “un furbetto del quartiere” e quello sostanziale su un paese in declino restituendoci uno dei finali più antiretorici del cinema italiano, nel quale tutti i “mostri” di quasi dieci anni prima fanno di nuovo la loro comparsa per ricordarci i nostri vizi originari e perpetui.
I MOSTRI DI IERI E QUELLI DI OGGI
Ed è proprio l’incredibile attualità dei temi trattati a rendere I Mostri un’opera immortale, capace di essere ancora oggi uno specchio della nostra società. Basterebbe citare l’episodio iniziale, L’Educazione Sentimentale, in cui Tognazzi istruisce il figlioletto a piccole pratiche di vita ingannevoli e scorrette per poi prendersela con i politici disonesti (“perché purtroppo c’è questa tendenza alla disonestà, questa tendenza alla malafede”): un ritratto fedele e quasi fin troppo reale dell’odierna ondata populista, spesso utilizzata come alibi per le piccole malefatte quotidiane (in piena sintonia con la doppiezza che contraddistingue il popolo italiano). Ma Dino Risi non si accontenta di una rappresentazione irriverente perché I Mostri offre anche sequenze molto amare: è il caso dell’episodio finale, La Nobile Arte, il più lungo e articolato (scritto da Ettore Scola) in cui un ex pugile sempliciotto viene convinto a tornare sul ring per il tornaconto di un organizzatore sportivo. Una chiusura che rappresenta, come disse lo stesso Gassman, “10 veri minuti di cinema notevole“, un frammento neorealista straordinario per dialoghi e ambientazione con un finale amarissimo: l’ex pugile rimane paralizzato in carrozzella e gioca con un aquilone sulla spiaggia di Fiumicino, in una scena potentissima per drammaticità e ferocia.
Nella versione home video distribuita da CG Entertainment, nei contenuti speciali, segnaliamo due interviste: la prima a Ricky Tognazzi (figlio del grande Ugo) e la seconda alla coppia Nicola Guaglianone – Gabriele Mainetti, gli autori di una delle pellicole italiane più importanti degli ultimi anni, Lo Chiamavano Jeeg Robot.