Joaquin Phoenix interpreta Joe, un veterano dell’Iraq che oggi lavora come sicario, specializzato nel salvare giovani ragazze che vengono rapite. Un giorno Joe viene incaricato da un importante senatore dello stato di New York, Albert Votto, di ritrovare la sua giovane figlia, scomparsa da più di ventiquattro ore. Mentre indaga su questo caso, il protagonista si ritroverà all’interno di una oscura cospirazione, nella quale niente è come sembra.
Il CINEMA DI LYNNE RAMSEY
La carriera della regista Brittanica si sviluppa attraverso due film (ora tre), realmente importanti. Cominciò nel ’99 con un originale Coming of age, divenuto ormai un film di culto, chiamato Ratcatcher- acchiappatopi, nel quale raccontava la storia di una famiglia di Glasgow che vive in condizioni terrificanti e aspetta di ottenere una nuova casa.
Nel 2011 arriva il suo capolavoro: …E ora parliamo di Kevin, un dramma (presentato al festival di Cannes) che mostra al mondo il talento di Ezra Miller, nelle vesti di un adolescente ribelle e tormentato che compie una strage in una scuola. Il film con Tilda Swinton raccontava proprio di una mente tormentata, di una famiglia in difficoltà e di un pericolo che stava per arrivare, tutto attraverso flashbacks e riflessioni della mamma di Kevin.
A beautiful day funziona nello stesso modo: accanto alla vicenda reale, ambientata ai giorni nostri, la regista mostra ciò che vede il personaggio di Phoenix nella sua mente: un bambino morto in Iraq, se stesso con una busta di plastica in testa da piccolo, nascosto dentro un armadio mentre i genitori litigano e altre nefandezze che ci preme non spoilerare. Per quanto i traumi del personaggio di Phoenix non siano totalmente originali (siamo nel campo della sindrome da stress post traumatico, come il Bickle di Taxi driver), è invece originale la maniera con cui vengono mostrati. Piuttosto che lunghe visioni del passato, essi sono dei piccoli flash, rapidi e dolorosi, come delle emicranie istantanee che logorano il protagonista. Entrano nella sua quotidianità e mano a mano che il film prosegue diventano sempre più frequenti.
JOAQUIN PHOENIX: IL TRASFORMISTA
Sappiamo che è superfluo sottolineare, ancora una volta, il talento infinito di questo attore, per qualche ragione ancora “a corto” di premi oscar. In The master era anoressico, in Her un alienato con le basette, nel nuovo film di Gus Van Sant, Don’t worry he won’t get, interpreta per l’ennesimo volta il folle, il disturbato, il problematico. Il suo “Joe” è un insieme di tutti questi.
In You were never really here (titolo originale del film), il fratello minore del grande River è gigantesco, feroce e implacabile. Odia le armi ( verosimilmente perché le ha impugnate in medio oriente), mentre adora combattere a mani nude, picchiando a sangue tutti quelli che si pongono fra lui e l’obiettivo che ha intenzione di raggiungere. All’inizio del film, in quella che sono i minuti migliori fra i 90 scarsi, lo vediamo che gioca con un coltello, ficcandoselo in bocca per poi tirarlo forsennatamente per terra, graffiando il pavimento di legno. In meno di venti secondi Joaquin Phoenix è già riuscito a raccontare il suo personaggio.
L’idea che si ha per tutto il film è quella di avere davanti un “Bersekr”, eroi della mitologia norrena che prima della battaglia entravano in uno stato mentale omicida e adoravano Odino sotto la sua più pura forma di “Furore”. Incontrollabili e al contempo esiziali. Ciò che dispiace, purtroppo, è il modo in cui questo Bersekr viene utilizzato
LO SNOBISMO DEL “CINEMA D’AUTORE”
Ciò che c’è di positivo di A Beautiful day è Joaquin Phoenix, per come recita e per come mostra il suo corpo gigantesco lacerato e ferito, per come si toglie un dente all’inizio del film e prosegue bofonchiando con la faccia gonfia. Tutto ciò che sta attorno a lui, ovvero il corollario dei personaggi secondari, è assolutamente insufficiente. Con pigrizia, la Ramsey li racconta senza sfaccettature, partendo dal rapporto fra Joe e sua madre e arrivando alla giovane ragazza che egli salva. Nessuno di loro possiede nulla: né una personalità e nemmeno qualche tipo di sfumature che li renda originali.
È come se la Ramsey avesse preso parte a Five obstructions, il film di Lars Von trier nel quale il regista doveva rigirare delle vecchie scene dei suoi film con alcuni limiti e proibizioni. A Beautiful day è infatti eccessivamente corto, tanto che durante la visione si sente che manca qualcosa ( i personaggi secondari), eppure c’è comunque qualche scena di troppo (come i momenti fra Phoenix e la madre). Lynne Ramsey mette in risalto il lato umano di Joe, privilegiando, spesso, le reazioni umane al massacro, le conseguenze di una lotta alla colluttazione stessa.
Insomma, la regista britannica vuole girare apparentemente un film di genere, un poliziesco che dovrebbe essere violento, omettendo in molti frangenti il sangue. Con un tipico snobismo da grande autore, il film è vuoto di mistero e di tensione, per concentrarsi piuttosto, ancora una volta, sui sentimenti e sull’umanità del suo protagonista. Alla fine del film, quando arrivano i titoli di coda, restano nelle orecchie i pezzi di elettronica di Jonny Greenwood (membro dei Radiohead e autore della colonna sonora), mentre negli occhi soltanto il corpo gigantesco di Joaquin Phoenix, come sempre all’altezza di ogni compito.