Era il 1975 quando, all’interno dell’articolo Visual Pleasure and Narrative Cinema (pezzo che andrà poi a far parte del suo libro Visual and Other Pleasures), la teorica del cinema femminista Laura Mulvey coniava per la prima volta il termine male gaze. Nel suo articolo, Mulvey dimostra come il patriarcato abbia negativamente influenzato le produzioni artistiche e come, di conseguenza, la rappresentazione della donna per il tramite dello sguardo maschile soffra della riduzione a puro e semplice oggetto del desiderio. In questo modo, la figura femminile è soggetta a tre diversi sguardi: quello della macchina da presa, quello del personaggio maschile all’interno del film e, infine, quello dello spettatore.
Muovendo da questo assunto, Amer (2009), opera prima del duo francese costituito da Hélène Cattet e Bruno Forzani, si presenta come un’intelligente e sofisticata denuncia del male gaze, se non altro per il semplice fatto di avere (anche) una donna dietro alla macchina da presa. I due, dopo aver lavorato per anni alla creazione di alcuni corti, approdano infine al lungometraggio, dando alla luce un prodotto poliedrico che ha subito saputo incontrare i favori della critica internazionale e ha aperto alla coppia le porte di Locarno, divenuto vetrina d’eccellenza per i loro due film successivi.
A primo impatto, Amer (pellicola disponibile su Festival Scope per la prima edizione del Festival Of French-Speaking Belgian Cinema) si presenta come un insieme altamente organico di tre cortometraggi, ognuno dei quali si concentra su una fase diversa della vita della sua protagonista, Ana. Durante l’infanzia, Ana (Cassandra Forêt) sfugge all’occhio severo della madre solo per cadere preda di quello maliziosamente impertinente della domestica di casa che la spia costantemente attraverso i buchi della serratura di porte chiuse. Il senso di claustrofobia è dato non solo dall’impossibilità di sfuggire alla gabbia dello sguardo altrui ma anche dalla labirintica casa gotica dove la famiglia di Ana vive. Muovendosi tra la sua camera e quella in cui si trova il cadavere di quello che si pensa sia suo nonno, Ana tenta di estrarre un orologio da taschino chiuso tra le dita del defunto e per questo si immagina di cadere vittima del malocchio finendo per perdersi in un’allucinazione onirica e psichedelica.
In quello che potremmo chiamare il secondo capitolo, o il secondo corto, Ana (Charlotte Eugène-Guibbaud) è adesso un’adolescente dalle belle labbra carnose e dal diastema che fa subito tornare alla mente la “gap-toothed wife of Bath” con il conseguente carico di allusioni alla lussuria della donna che presentava una tale caratteristica fisica. Dopo aver indugiato a lungo sul corpo della giovane, la macchina da presa, come gli occhi di tutti gli uomini che fanno la loro comparsa in questa sezione narrativa, difficilmente si stancherà di scivolare lasciva sulle curve ancora acerbe di Ana, la quale si aggira per le strade di un borgo in bilico tra un’infantile pudicizia e la sfacciataggine dell’adolescente conscia del proprio fascino in fiore. Allo stesso tempo, lo sguardo maschile sembra farsi sempre più insistente e la sensazione che presto l’uomo non potrà più sottrarsi ai suoi stessi impulsi sessuali viene suggerita più di una volta da certi primissimi piani su occhi e bocche quasi d’animale accesi dalla lussuria.
Quella che finora sembrava solo una minaccia, si concretizza nell’ultimo segmento narrativo del film. Ana (Marie Bos), adesso donna, ha deciso di tornare alla sua casa natia ma per farlo deve prendere un taxi dalla vicina stazione ferroviaria. Il caldo dell’estate, il leggero vestito indossato dalla donna e i suoi movimenti sinuosi accendono subito il desiderio del tassista il cui sguardo, durante la corsa, si fa sempre più oppressivo e penetrante. Quando il vestito di Ana si lacera improvvisamente mostrando per qualche secondo un seno prima che la donna riesca a coprirsi ci troviamo di fronte al momento di denuncia più alto, quando l’impotenza e l’oggettivazione della donna sono mostrate con la stessa potenza e brutalità con cui lo sguardo maschile pensa di potersi appropriare di un corpo non suo. Non appena Ana mette di nuovo piede nella casa, ci troviamo di fronte ad un crescendo di suggestioni hitchcockiane mentre la donna tenta di rivendicare la propria posizione di controllo tagliando via gli occhi ai ritratti degli antenati appesi alle pareti dell’ampio ingresso, per poi diventare prima carnefice e poi vittima di quegli uomini che ancora cercano di possederla.
Amer è stato riconosciuto da molti come un chiaro omaggio al cinema italiano di genere degli anni sessanta e settanta. Fin dalle prime scene, infatti, il richiamo è innegabile e ben presto ci troviamo a fare i conti con una selva ben nutrita di riferimenti a Dario Argento o a Mario Bava, in particolare per l’uso sistematico dello zoom. Oltre al citazionismo d’autore, Amer consegna allo spettatore una serie di sequenze che spaziano da un palpabile erotismo a un surrealismo in cui dominano i rossi, i verdi e i blu che inondano la scena. Quello di Cattet e Forzani è dunque un film sontuoso, sensuale e intelligente che andrebbe prontamente riscoperto e investito di tutta l’attenzione che merita.