Excavator è il secondo lungometraggio diretto da Lee Ju-hyoung, nato dalla collaborazione con Kim Ki-duk (che della pellicola è produttore e sceneggiatore). Dopo essere stato presentato al festival di Tallinn approda in concorso all’Asian Film Festival di Bologna.
UN EX MILITARE CONVIVE CON IL SUO TRAGICO PASSATO
Kim Tang-il (uno straordinario Eom Tae-woong) è un ex militare che lavora con un escavatore. Scavando ai piedi di una collina riesuma i resti di alcuni giovani facenti parte dei gruppi studenteschi che negli anni ’80 si erano ribellati al regime sudcoreano; Kim faceva parte del plotone che è stato inviato a sopprimere la protesta in quella zona e ricorda con dolore le atrocità che lui e i suoi compagni hanno dovuto compiere sotto il comando dei propri superiori. Kim parte quindi alla ricerca dei suoi compagni d’armi per capire come riescono a convivere con il proprio passato, soprattutto ora che l’opinione pubblica ha riabilitato quei movimenti rivoluzionari come pro-democratici e ha condannato i militari dell’epoca come assassini.
EXCAVATOR È UN FILM CHE METTE A NUDO L’ANIMO UMANO
Dopo il disastroso Red Family, film uscito nel 2013 distrutto sia dalla critica che dal pubblico (anche questo scritto e prodotto da Kim Ki-duk), Lee Ju-hyoung si affida ancora una volta allo script di quello che sembra essere oramai chiaramente il suo mentore. Excavator è una pellicola estremamente ispirata alla poetica del grande cineasta di Pietà, che con la sua sceneggiatura riparte ancora una volta dalla svolta politica già ampiamente approfondita con i suoi ultimi lungometraggi (One on One, Stop) per affrontare contemporaneamente l’analisi sulla Corea contemporanea e la questione del senso di colpa.
Se però Kim sembra essere entrato in una fase poco ispirata della propria carriera (eccezion fatta per lo stupendo The Net), Lee riesce dove il suo maestro ha parzialmente fallito: Excavator è un’opera che tratta un tema che pesa come un macigno con una delicatezza incredibile. Lo stile registico adottato è del tutto simile a quello del Kim degli esordi, senza però la violenza che lo caratterizzava: Lee segue Kim Tang-il silenziosamente e a distanza, esponendo assieme a lui le ferite e il pentimento di chi si è dovuto macchiare di crimini orrendi sotto l’ordine dei generali dell’esercito.
Kim Tang-il affronta il suo viaggio a bordo dell’escavatore (una scelta simbolica per nulla celata) e incontra uno ad uno i suoi commilitoni per scoprire che ognuno di loro è rimasto ferito profondamente dalle azioni che ha compiuto: alcuni non sanno gestire la rabbia, altri sono impazziti del tutto, altri ancora hanno interiorizzato la disciplina militare come metodo d’insegnamento nei confronti delle proprie famiglie, c’è chi si è fatto monaco per tentare di dimenticare e chi si è arricchito pur avendo perso ogni traccia di compassione ed umanità. Quello di Excavator è un viaggio alla scoperta del senso di colpa, del pentimento e della dignità umana, un viaggio che mette a nudo il lavaggio del cervello subìto da tutti i soldati addestrati ad obbedire agli ordini senza mai porre domande. Allo stesso tempo è un film che mostra senza veli l’ironia della storia e la volubilità dell’opinione pubblica in quanto Kim e i suoi commilitoni vivono una vita d’inferno in un paese che prima li ha elogiati per aver sedato le rivolte dei comunisti per poi bollarli come assassini disumani opposti alla democratizzazione della Corea del Sud.
Il percorso del protagonista culmina con una parziale redenzione, non riuscendo ad accettare il proprio passato nonostante si sia sempre rifiutato di uccidere. Excavator è un piccolo gioiello della cinematografia coreana contemporanea che meriterebbe molta più visibilità di quella che ha avuto. Lo stesso vale per Lee, che dopo un inizio di carriera un po’ altalenante sotto l’ala di Kim Ki-duk ora è chiamato a fare un passo in più e a riconfermare le proprie qualità con uno stile più personale e meno legato a quello del proprio maestro.