Come ha dichiarato in un’intervista la regista e sceneggiatrice Alice Rohrwacher: “Il film inizia con questa grande comunità di 54 contadini, tra loro ci sono tante altre storie che noi potremmo seguire e che sarebbero più sensuali, più attraenti: la storia di un amore, la storia di una madre. Tra tutti invece viene scelto l’ultimo della lista, che ci racconta questo modo di stare al mondo”.
Dopo Corpo Celeste e Le Meraviglie, la regista fiesolana gira la sua opera migliore, il suo primo vero manifesto artistico. Premiato al Festival di Cannes per la migliore sceneggiatura, Lazzaro felice è un film unico, un omaggio al capitale cinematografico italiano del ‘900, a partire da chi ci ha lasciato da poco (Ermanno Olmi) fino a chi è scomparso decine di anni fa come Cesare Zavattini. La storia meno “sensuale ed attraente” di Lazzaro (Adriano Tardiolo), un giovane contadino che vive insieme ad altri 53 braccianti, equamente divisi fra vecchi, giovani, bambini, uomini e donne. Si tratta di una gigantesca famiglia che viene tenuta sotto scacco dalla Marchesa Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi), crudele e spietata imprenditrice che li sfrutta facendogli lavorare le foglie di tabacco dalla mattina alla sera. I poveri contadini non vengono nemmeno pagati; tutti loro sono infatti convinti che in Italia viga ancora la legge della mezzadria, tanto che affermano di essere proprietà della marchesa.
Il giovane Lazzaro stringerà una strana amicizia con Tancredi (intepretato dallo youtuber Luca Chikovani), per poi ritrovarsi, dopo una serie di peculiari vicende, catapultato nel presente, all’interno di una città.
UNA FIABA DI FORMAZIONE
L’impostazione favolistica di Lazzaro Felice è data da due fattori: la presenza dell’elemento ‘magico’ e il confine netto che esiste fra i buoni e i cattivi. Anche i più malvagi villain contemporanei conservano una cifra, seppur ben nascosta, di bontà. La marchesa no. Il personaggio di Nicoletta Braschi (perfetta per quel ruolo) è una novella Crudelia De Mon, per la quale gli esseri umani sono bestie da sfruttare, poiché al mondo “c’è sempre qualcuno che sfrutta qualcuno e poi viene sfruttato da qualchedun altro”.
La dichiarazione di Alfonsina de Luna possiede però un fondo di verità: il giovane Lazzaro viene sfruttato persino dai suoi colleghi e famigliari. È l’epitome del lavoratore perfetto: parla poco, accetta di fare tutto e non ha mai bisogno di riposo, cibo o acqua. È l’eroe buono, ottimista e pieno di ideali. Ogni tanto, durante il lavoro, si ferma e con gli occhi spalancati si mette a fissare il vuoto, come se ci fosse qualcosa che può vedere solo lui. Tardiolo, giovane attore esordiente, sembra nato per questa parte.
Fra Lazzaro e Tancredi si sviluppa invece il racconto di formazione. I due giovani, interpretati da due esordienti, di cui uno nemmeno attore professionista, vengono diretti così bene da far si che l’alchimia deforme fra “servo e padrone” sia comunque innocente ed infantile, come due infanti che giocano. Per entrambi il contatto con l’alieno sarà l’inizio di una rinascita che li porterà a far i conti con un mondo nuovo e grigio: la città.
LA POETICA DI LAZZARO FELICE
Girato in 16-mm, Lazzaro felice è uno sguardo curioso su un mondo ignorante ma innocente come quello rurale. Ricorda l’amore per certi visi contadini che aveva Pasolini, come quello di Ninetto Davoli o di Citti. Adriano Tardiolo, grazie al suo modo così semplice di parlare, di camminare e di spalancare gli occhi, fa tornare alla memoria certe sequenze del regista di Accattone, il quale vedeva nell’Italia non industrializzata la forma più pura di umanità.
Nelle case abitate dai contadini, stipate e dall’igiene trascurata, si rivede l’Olmi de L’Albero degli Zoccoli. Con lui Alice Rohrwacher condivide un talento innato per la scelta degli attori e per la costruzione dei set, come ad esempio le camere da letto dei contadini , sovrappopolate e con letti incastrati nell’angusto spazio. La pelle degli anziani è deformata e consumata dal lavoro, rovinata dalle ore che per tutta la vita hanno speso sotto il sole rovente. Non sanno leggere, credono ancora che “la scuola è cosa per signori” eppure nella miseria e nella semplicità trovano una pace che non ha eguali.
UN FILM IN DUE PARTI
Il suo peggio Lazzaro felice lo dà quando vuole raccontare una dimensione temporale diversa rispetto a quella eterna e immutabile della civiltà contadina. Non appena l’azione si sposta nella città, in una anonima periferia non riconoscibile, e non appena la componente politica entra a far parte del film, l’opera della Rohrwacher smarrisce un po’ il filo. La morte e resurrezione di Lazzaro rappresentano la cesura fra un atto e l’altro: laddove la prima parte è un racconto fiabesco, la seconda vorrebbe essere un ritratto di come gli ultimi rimangano ultimi in un mondo che li ghettizza.
Lazzaro nella seconda parte, per esempio, identifica come commestibile quella che le altre persone chiamano semplicemente “erbaccia”. Vicino ai binari della stazione crescono la cicoria e tanti altri tipi di piante, le quali non vengono nemmeno notate dagli uomini normali che non sono più interessati a queste cose. Esistono poi, nel secondo atto, scene di miseria varia, sequenze che mostrano attraverso quali espedienti debbano vivere gli accattoni moderni, eternamente poveri ed eternamente solidali fra di loro.
È difficile dire con esattezza quale sia il ‘fine’ di Lazzaro felice. È parzialmente un’opera fiabesca, parzialmente di denuncia e parzialmente documentaristica per il modo nel quale racconta la differenza fra il mondo contadino e quello cittadino. Ma è proprio il prodotto di questi tre generi a definire lo stile di Alice Rohrwacher, così unico nel panorama cinematografico di quell’Europa a cui lei e sua sorella Alba (presente anche in questo film) piacciono così tanto. Lazzaro Felice ha infatti per il resto del mondo e per il pubblico internazionale tutto il respiro del cinema italiano, come era stato – anche se i due titoli non sono paragonabili – per La Grande Bellezza. Lo testimonia anche il premio per la miglior sceneggiatura assegnato a Cannes.