The Tree an the Canoe di Sébastien Marques, prodotto in Francia e della durata di 25 minuti, è uno dei corti presentati in anteprima mondiale alla Quinzaine des Réalisateurs 2018, nell’ambito del 71° Festival di Cannes. È disponibile in streaming gratuito fino al 17 giugno su Festival Scope.
Vincitore del premio Océans insignito da France Ô, The Tree and the Canoe (L’Arbre et la pirogue) ci porta nello straordinario scenario della Melanesia (già vista nel bellissimo Tanna di Martin Butler e Bentley Dean), un paradiso tropicale in cui il tempo scorre a modo suo.
Mentre la vita delle tribù locali è progressivamente ‘corrotta’ dai tempi moderni e la sopravvivenza delle tradizioni ancestrali annacquata dalle seduzioni della contemporaneità, le nuove generazioni cercano una nuova identità anche a costo di lasciarsi alle spalle i costumi millenari dei padri.
Il soggetto offre chiaramente spunti straordinariamente interessanti, a partire dall’implicita prospettiva antropologica, eppure a Marque interessa prevalentemente la dimensione intima più che il ritratto sociologico, tanto che concentra la sua storia sugli incontri ricorrenti tra un anziano del villaggio e un ragazzo, focalizzandosi sul bisogno di entrambi di un confronto e uno scambio di idee tra generazioni. Ovviamente l’anziano è saggio e paterno e il giovane confuso, come nel solco del più prevedibile stereotipo.
Il titolo del corto fa riferimento a un’immagine molto cara alla cultura melanesiana, e cioè quella dell’uomo come un albero e della società come una canoa: gli individui non devono perdere il proprio sguardo nel cielo, ma devono concentrarsi sulla terra nella quale piantano salde radici (evidente il parallelismo con le tradizioni), mentre a permettere lo spostamento (e quindi in qualche modo l’evoluzione) è la società, una canoa che non è che una seconda vita per l’albero. Sarà proprio sulla costruzione di questa canoa che verterà buona parte dei 25 minuti di metraggio, e quando alla fine il vecchio spiegherà al giovane di averla costruita per lui e lo esorterà a intraprendere un viaggio anche se ancora non ha una meta, potete stare sicuri che ogni limite di sopportazione dello spettatore nei confronti delle ovvietà sarà impietosamente superato.
Marques dedica tutta la sua attenzione alle più lapalissiane letture della tanto suggestiva quanto banale metafora del titolo, e lo spunto potenzialmente straordinario di una cultura tribale plurimillenaria condannata a sparire per sempre (che avrebbe aperto infiniti panorami narrativi ed emotivi) viene completamente ignorato, a favore di un qualunquismo rassicurante e soporifero che propone una retorica che sarebbe inaccettabile anche in un cartone per bambini di 5 anni. Il regista confeziona un cinema sciatto e ruffiano che vorrebbe avere il sapore delle pellicole d’autore ma che si colloca mezzo gradino al di sopra della telenovela.