Negli ultimi anni la Città Eterna è indubbiamente una delle grandi protagoniste del miglior cinema di casa nostra. Se La Grande Bellezza sorrentiniana ha affascinato il mondo intero, è in verità la borgata più modesta e verace ad essere diventata l’oggetto privilegiato dello sguardo di tanti registi nostrani. Quella Roma tutt’altro che seducente, che però mantiene un suo fascino quasi pasoliniano, e che con la sua sofferta assenza di ambizioni o opportunità ci racconta una fetta del nostro presente.
È proprio a quel mondo che guarda Elisa Fuksas, che torna dietro la macchina da presa per mettere in scena la quotidianità di una manciata di cittadini romani che, a differenza di molti dei protagonisti del cinema recente, di ambizioni ne hanno, e anche al di là della propria portata. In ALBE: A Life Beyond Earth, presentato al Biografilm Festival 2018 – International Celebration of Lives, la videomaker racconta infatti le storie di uno sparuto gruppo di persone comuni consumate da un’attrazione maniacale per il soprannaturale. Storie strappate alla realtà: «Tutto vero, tutto rigorosamente vero», sottolinea la Fuksas con il co-sceneggiatore Tommaso Fagioli.
IL RICHIAMO DELL’ALIENO
Che si tratti di sedute con contattisti, avvistamenti di ufo, sgangherate teorie pseudoscientifiche sulla particella di dio, ‘debiti karmici’ o strampalati macchinari new age, il documentario narrativo della figlia del celebre architetto ha l’innegabile pregio di dirigere l’obiettivo su un mondo che andrebbe studiato con la stessa appassionata e curiosa estraneità con cui il poeta Theodore osservava i suoi concittadini nell’Antologia di Spoon River; un mondo di individui che cercano un senso nella partecipazione di qualcosa di altro, alieno, metafisico, più grande.
Individui che una volta forse coltivavano questi eccentrici interessi nella solitudine delle proprie case, e che ora trovano invece una valvola di sfogo nonché uno strumento di aggregazione nei più improbabili gruppi Facebook – o nel gruppo ALBE. Una tipologia umana che, ritratta nella genuinità della propria estrazione sociale a volte modesta, mentre quasi in vernacolo sciorina con seria gravità un’approfondita conoscenza delle più insensate baggianate, basterebbe da sola a reggere un film straordinario.
E invece è proprio qui che il lavoro della Fuksas si rivela un gigante dai piedi d’argilla, e che quella che sulla carta prometteva di essere un’opera dal grandissimo potenziale si rivela come un lavoro piuttosto mediocre la cui (forse inconsapevole) disonestà intellettuale finisce per deludere non poco. L’autrice infatti documenta o ricostruisce, restando fedele – sottolinea lei – alle parole, al pensiero e anche all’abbigliamento delle sue ‘muse’, la loro vita, come in una sorta di diorama sociale. Idea accattivante, che però ha implicazioni troppo grandi per essere ignorate – prima tra tutte la premessa legittima ma ideologicamente fallace che la realtà abbia bisogno di essere sintetizzata in laboratorio.
LA REALTÀ COME UN OLOGRAMMA
Soprattutto negli ultimi anni sono stati molti i titoli che hanno saputo sposare il cinema di finzione con il racconto del reale (si pensi agli straordinari A Ciambra di Carpignano e Il Cratere di Luzi e Bellino). Le ricette per farlo sono molte, e la Fuksas sceglie quella di ritrarre o restituire come ologramma la quotidianità romana, forte di una fotografia di altissimo livello. Un’operazione concettualmente molto simile al cinema dell’ipotetico dei suddetti titoli, ma dall’esito ben meno convincente.
Le scelte tecniche sono esteticamente meritorie, tanto che il sofisticato color grading con cui dà un’impronta fortemente cinematografica a ogni inquadratura, l’ottimo gusto compositivo e il taglio mai banale delle inquadrature trasformano la periferia romana in un set naturale (merito anche del direttore della fotografia specializzato in digital imaging Emanuele Zarlenga).
Il problema è che – fatta eccezione per le interviste – il documentario funziona quando l’occhio del narratore resta periferico e la sua mano quasi invisibile, mentre qui la regista sceglie di avvicinarsi moltissimo e in modo decisamente poco discreto ai soggetti. Questa scelta artistica, unita a movimenti di camera relativamente complessi che la costringono a passare, girarsi e inchinarsi tra chi teoricamente dovrebbe quasi ignorare la presenza dell’operatore di macchina, priva inevitabilmente di ogni naturalezza il girato. Se a ciò aggiungiamo che la Fuksas arriva a credere di poter ottenere qualcosa di lontanamente vicino al vero riprendendo una ‘seduta spiritica’ con una camera radiocomandata che ruota su un perno posto in corrispondenza del centro del tavolo, abbiamo la misura di quale concezione a dir poco peculiare abbia della verosimiglianza.
È l’insieme di grandi spunti e scelte decisamente infelici a definire il risultato finale, in cui i protagonisti non si dimenticano mai di essere ripresi e si sforzano con scarso successo di usare un italiano corretto e di ripulire la parlata romanesca, si riempiono più del dovuto la bocca di paroloni new age per darsi un tono (probabilmente incalzati dagli autori), interagiscono tra loro senza alcuna spontaneità e a tratti addirittura guardano fugacemente in camera o si mettono in posa. Rimane da chiedersi in che modo questa verità pesantemente ‘taroccata’ possa giovare alla storia.
UN FILM POLITICO MANCATO
La forza del soggetto di ALBE: A Life Beyond Earth infatti starebbe tutta nell’accostamento tra la dimensione metafisica e quella popolare, nell’indagine di come un tema antropologicamente ‘alto’ come il bisogno del soprannaturale finisca per avere un ruolo preponderante nella vita di persone semplici, a volte umili, che però preferiscono la fantascienza alla più tradizionale religione. Quando a un’equazione tanto promettente si sottrae l’onestà; quando in vece della verità si ha una confezione eccessivamente consapevole ma per questo superfluamente kitsch, l’unico fattore che rimane a rubare la scena è la disperata volontà di autorappresentazione di queste persone – che comunque la Fuksas non riesce in alcun modo a sfruttare. È così che si perde la dimensione intima della narrazione e con essa l’interesse verso un’indagine sociale, e subentra un senso di estraniamento. Un’opportunità sprecata; un esercizio di stile esteticamente riuscito ma decisamente confuso negli intenti.
Non sempre alle grandi idee segue una grande realizzazione, e ALBE è il perfetto esempio di quanto sia difficile e sottovalutata l’arte del racconto del reale, intesa in tutte le sfumature possibili. Elisa Fuksas ha avuto modo di sottolineare a proposito di A Life Beyond Earth che «È il trionfo di chi non è stato riconosciuto da un certo mondo. Ho capito solo a posteriori di aver fatto un film politico», sostenendo poi che «Tutte queste persone sono per i Cinque Stelle. Non li ho cercati, ma non credo sia un caso. (…) tutte per la fratellanza cosmica, per l’accoglienza dell’alieno, però se uno viene dall’Africa o da una guerra lo lasci morire in mare?». Non abbiamo conoscenza diretta del credo politico dei protagonisti o della loro opinione sulla gestione dei flussi migratori (li invitiamo se vogliono a confermare o smentire), ma l’osservazione della regista è interessantissima, e avrebbe potuto dare un taglio molto più controverso e attuale alla pellicola. Se lei l’ha capito a posteriori, però, figuriamoci se noi abbiamo potuto trovarne traccia nel film.
ALBE non va, ma riconosciamo comunque alla Fuksas di esser sul versante più interessante della settima arte italiana del momento, quello – ci ripetiamo – del cinema dell’ipotetico. Considerata la grande perseveranza con cui ha più volte in fase di lavorazione demolito e ricostruito questo progetto fantascientifico, le auguriamo di andare oltre un lavoro di sicuro non centratissimo e di costruire sulle basi di un talento che si intravede in filigrana ma ancora deve pienamente formarsi.