La Mathieu-Martin High School non è una scuola come tutte le altre: tra le pareti di questo istituto canadese, infatti, è intrappolato un dolore che ha segnato un’intera generazione di giovani studenti.
Come racconta 1999, il toccante documentario di Samara Chadwick presentato al Biografilm Festival 2018 – International Celebration of Lives, c’è stato un anno in cui un singolo evento luttuoso ha avuto una ricaduta al di là di ogni immaginazione sulle vite di un gruppo di teenager ancora impreparati ad affrontare l’asprezza della vita. Un evento che, se fosse stato affrontato diversamente da parte dello staff della scuola, probabilmente sarebbe rimasto un caso isolato e non sarebbe diventato il primo di una lunga serie di terribili emulazioni.
Sono gli ex studenti che frequentavano l’istituto francofono di Dieppe nel 1999 – ormai adulti – ad alternarsi davanti all’obiettivo della Chadwick, mentre le loro struggenti testimonianze – tra riflessione e ricordo – sono intervallate da spezzoni di filmini amatoriali dell’epoca, che li ritraggono di quasi vent’anni più giovani.
Fu l’improvviso suicidio di uno di loro a cambiare per sempre l’esistenza di quei teenager; un suicidio che sconvolse i compagni del quindicenne ma di fronte al quale la direzione della Mathieu-Martin High decise di fare finta di niente, non dedicando allo scomparso nemmeno un minuto di silenzio. Nessuna età come quella dell’adolescenza è caratterizzata da una fragilità psicologica pericolosa, e come dice una delle intervistate «ormai sei nel mondo dei grandi ma non hai gli strumenti per affrontarlo». Proprio per questo avrebbero dovuto essere gli adulti ad aiutare i giovani a processare il lutto, e invece, in mancanza del dovuto supporto psicologico, si innescò un’assurda spirale che finì per ingigantirsi di mese in mese, e che alla fine dell’anno portò ben 6 ragazzi a togliersi la vita.
1999 è agghiacciante nella misura in cui rende l’atmosfera irrespirabile di quel periodo scolastico maledetto, in cui gli studenti si chiedevano semplicemente chi sarebbe stato il prossimo di loro a suicidarsi e i professori tiravano un sospiro di sollievo se a morire non era uno dei ragazzi della propria classe. Un trattato di psicologia adolescenziale, che racconta la progressiva scomparsa di ogni gioia e reattività in quella che dovrebbe essere una delle età più vivaci, e che ci ricorda con prepotenza quanto sia importante che una generazione dia alla successiva gli strumenti per affrontare il mondo.
Se i teenager sono generalmente identificati con un bisogno quasi innatistico di ribellione, sarà proprio un piccolo grande gesto di ribellione a rompere quel terribile incantesimo e segnare un punto di svolta: quando in una recita per una festività francofona tre ragazze trasgrediranno le regole e si esibiranno cantando e suonando in inglese Wish You Were Here dei Pink Floyd, l’uditorio esploderà in un liberatorio mix di entusiasmo e pianto, come a riappropriarsi del proprio diritto di condividere e affrontare il dolore. A quel concerto scolastico seguiranno piccoli atti vandalici interni alla scuola e gesti gratuiti di protesta, che però saranno il modo in cui “i sopravvissuti”, quelli che avevano raggiunto la fine del 1999 senza togliersi la vita, rivendicheranno il proprio diritto di sentirsi vivi, e cioè di incidere in qualche modo sul mondo.
Un film dai ritmi tutt’altro che veloci e con qualche minuto di troppo, che però entra sotto pelle, turbando ed emozionando lo spettatore anche molte ore dopo la proiezione.