Il carcere è una scuola di malavita, e quando esci, non hai nulla e quasi nessuno è disposto a darti un lavoro, il più delle volte torni a delinquere per poter mangiare o avere un tetto sulla testa. Questo è il ragionamento che fa uno dei protagonisti de Il Clan dei Ricciai, bel documentario di Pietro Mereu presentato in anteprima al Biografilm Festival 2018 – International Celebration of Lives, e a una considerazione tanto sconsolata fa però seguire un barlume di speranza: la speranza data dalla cooperativa di pescatori di Gesuino Banchero, che è messa sotto la lente dal regista sardo.
Il Clan dei Ricciai è un emozionante racconto di redenzione che ci porta nel cuore di Cagliari, nel Golfo degli Angeli e – più in generale – in una Sardegna lontana da ogni cliché. Uno dopo l’altro veniamo messi a conoscenza delle storie di un gruppo di pescatori che nei mesi più freddi dell’anno si immergono fino ai fondali marini per pescare quei ricci che finiranno nei gourmet più ambiti d’Italia. Un lavoro che non è riconosciuto dalla regione, che ha ‘regole’ tutte sue ma che offre buoni guadagni a chi sia disposto a non risparmiarsi.
Un ‘clan’, quello dei ricciai, che gode di un’unità corporativa tutta particolare, conseguenza di quell’empatia che nasce tra chi ha condiviso un percorso di vita difficile. Prima di essere pescatori di ricci, infatti, questi lavoratori tanto coesi sono stati carcerati, hanno vissuto vite difficili e macchiate da crimini non sempre minori, e ora, dopo una lunga permanenza a Buon Cammino, riescono a riscrivere la propria esistenza grazie a un processo di integrazione che somiglia molto a una famiglia.
Uno dei compiti fondamentali del cinema documentario è quello di metterci in contatto con realtà che magari sono dietro l’angolo, ma nelle quali non avremmo mai modo di imbatterci. In tal senso Il Clan dei Ricciai è un film straordinario, capace di schiudere allo spettatore un piccolo universo isolato, in cui dietro i volti consumati dalle rughe e dal sole si nascondo storie di vita che sembrano uscite da un romanzo.
La chiave di lettura offerta da Mereu, che supera ogni polveroso schema già visto con l’inedita prospettiva offerta dalla dimensione marinara, non vuole giustificare in nessun modo il crimine né cerca facili emozioni nello spettatore, ma è la più asciutta e solida dimostrazione di quanto un lavoro onesto, con la sua fatica e la sua etica, possa essere la più efficace delle esperienze di integrazione.