Nella Kyoto di fine diciassettesimo secolo una serie di equivoci costringe un dipendente di una stamperia imperiale a fuggire dal paese con la moglie del proprio padrone. Entrambi accusati di adulterio e dunque destinati alla crocifissione tenteranno di raggirare un fato ormai scritto.
Gli amanti crocifissi di Mizoguchi arriva a Venezia Classici con una veste ritrovata che ne esalta i tratti distintivi, se ne giovano in particolare gli esterni, segnati da una natura a tratti nebbiosa, torbida ma anche voluttuosa, come l’origine adulterina del rapporto tra i due protagonisti. Prendendo a piene mani dalla tradizione orientale dello spettacolo di marionette, la pellicola tradisce già dal titolo italiano il destino contrassegnato dello stampatore Mohei e della giovane O-san, per giunta evocato in una delle prime, magistrali sequenze della pellicola, in cui due amanti vengono condannati ed esposti al pubblico ludibrio paesano (memorabile il quadro con i due crocifissi immersi nella nebbia ornata di alberi secchi). Se la prima crocifissione rappresenta un momento spettacolare per tutti i personaggi e per lo spettatore stesso, la seconda diviene manifesto della relazione impossibile tra Mohei e O-san, legati simbolicamente con una corda mentre vengono portati alla morte, costretti quindi alla divisione in vita e infine forzatamente legati nel momento della condanna. È così che il dramma di Mizoguchi, più che mostrare una fuga amorosa incerta del proprio futuro, è al contrario la pura descrizione di un calvario, la messa in scena di un destino avverso di cui entrambi sono coscienti. C’è dunque la ripresa di un passato inquisitore in chiave critica, il mero piacere della narrazione amorosa e la volontà quasi antropologica di ricostruire dinamiche interpersonali all’interno della città. Nasce un’opera colma di messaggi, ambizioni e temi toccati anche solo attraverso piccoli dettagli: si noti in questo senso l’insistenza con qui – parallelamente alla sparizione degli amanti – Mizoguchi mostra premura nell’evidenziare il terrore per il disonore e per l’infamia ai danni della famiglia nel Giappone del periodo, unita alla naturalezza delle pulsioni sessuali represse per legge.
Si consegna dunque allo spettatore una favola amara incorniciata da sonorità tipicamente orientali, tanto esotiche quanto seducenti, tutt’oggi, per un pubblico occidentale che si appresti alla visione. Un racconto di interni che appena si inoltra nei boschi nipponici regala una spazialità suggestiva, talmente seducente da far ipotizzare un volontaria messa in evidenza di una natura ammaliante ma pericolosa sia nelle sue forme estetiche che nelle sue manifestazioni amorose negli uomini.