Quando si parla di cinema e di cineasti giapponesi della prima metà del ventesimo secolo, tre sono i nomi che vengono immediatamente alla mente: l’immenso Akira Kurosawa, considerato da molti uno dei migliori registi di sempre, il geniale Yasujirō Ozu, sperimentatore affascinato dalla ricerca psicologica, e Kenji Mizoguchi, uno dei maestri più ingiustamente condannati all’oblio.
Se per molti il nome di Mizoguchi è pressoché sconosciuto, per la critica mondiale invece rimane uno dei pilastri del cinema moderno, riconosciuto anche nel nostro paese dove il regista giapponese è stato premiato più volte con il leone d’argento a Venezia, lo stesso festival che nel 1980 gli dedicò una retrospettiva con ben trenta suoi film.
La Mostra del Cinema quest’anno riconferma il suo amore per il regista del sollevante, infatti, per la sua 74° edizione, Barbera ha incluso uno dei lavori più famosi di Mizoguchi alla lista di pellicole restaurate: L’intendente Sansho, film del 1954.
L’Intendente Sansho (o Sansho the Bailiff 山椒大夫) è la struggente storia di una famiglia aristocratica condannata alla rovina ed alla sofferenza da un mondo senza scrupoli e privo di pietà. Ambientato in un Giappone medievale del periodo Heian, il film segue le vicende successive all’esilio di un governatore, destituito perché riluttante nell’obbedire ai suoi superiori, preferendo il benessere dei suoi cittadini alla grandezza delle imposte dovute all’impero. Condannato ad abbandonare la sua gente, sua moglie ed i suoi due figli, il governatore lascia come unico dono un mantra di vita e un idolo della dea della compassione Kannon che ne serva da memento:”senza pietà, l’uomo non è che una bestia“. Anni dopo l’esilio, la famiglia del governatore attraversa il Giappone alla sua ricerca, ma una sfortunata serie di eventi guidati dall’avidità condurranno tutti e tre in schiavitù, condannando la madre ad anni di abusi e torture e i fratelli Zushiô e Anju ad una decade di lavori forzati presso i terreni dello spietato Sansho. Solo una lunga lista di sacrifici permetterà alla famiglia, in un modo o nell’altro, di trovare la libertà e di mettere in pratica l’insegnamento paterno affidatogli prima della prigionia, portandoci ad una conclusione struggente che si interroga sui valori dell’esistenza.
Il film verte su concetti come la libertà, la ricchezza e l’ineluttabilità dei diritti umani, inoltre insiste sul confronto fra idee e concretezza, fra giustizia e la sua applicabilità e fra una filosofia di vita moderna ingiustamente anacronistica in un mondo popolato da cupidi animali.
Perno della vicenda è il personaggio di Zushiô, attraverso cui possiamo comprendere l’effetto che quel mondo crudele narrato da Mizoguchi ha sulla psiche umana, sulla nostra capacità di provare compassione e di sperare nel domani, mostrando comunque che c’è sempre possibilità di redenzione e che un uomo, non importa quanto potente, non può sottrarsi ai propri doveri, anche se questo vuol dire far cozzare i nostri ideali con una realtà avversa.
Questo forte contrasto è probabilmente la componente più affascinante del film, che usa i concetti di “ideale” e di “vita” come due tasselli dello stesso quadro, lo yin e lo yang della sorte umana, in grado di crearne le sfumature di grigio magistralmente rappresentate dalla fotografia cristallina ed evocativa di Kazuo Miyagawa, che già da anni collaborava con Mizoguchi.
Le riprese sono lunghe e strazianti, i movimenti di camera asserviti alle regole della narrazione classica del cinema, l’editing all’avanguardia ed in grado, con pochissimi tagli e sfumature, di raccontarci l’interiorità dei personaggi. Questi elementi, uniti ad una collocazione delle inquadrature ad altezza d’uomo, lunghi piani sequenza, una scenografia povera ma sorprendentemente reale, una recitazione priva di staging per delle interpretazioni più naturali ed una poetica registica che guida l’occhio dell’osservatore in base alle emozioni, crea un forte legame empatico con le vicende narrate dalla pellicola, aiutandoci a comprendere e a vivere il malessere della condizione umana causata dalla corruzione e dalla mancanza di pietà.
Quest’ossessione del regista per la poetica della compassione, dell’uguaglianza degli uomini e per l’ineluttabilità dei doveri verso gli altri riflettono il cambiamento politico in atto nel Giappone post-nucleare, dove questi concetti erano stati appena reintrodotti sotto la matrice dell’occupazione americana del ’47 e attraverso la condanna delle atrocità commesse nei campi di concentramento giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale (di cui il podere di Sansho è una metafora).
Brutale, magistralmente eseguito ed emotivamente devastante, L’intendente Sansho è un capolavoro imperdibile e stilisticamente sublime, con una poetica ed una realizzazione intaccata dall’effetto del tempo, portandolo ad essere, ancora oggi, una visione consigliata ed imperdibile.