Il Libano, stato dalle mille contraddizioni, terra di tutti e di nessuno e sede di numerose guerre civili che sembrano non avere mai fine, è stato ampiamente raccontato dalla cinematografia internazionale nel corso degli anni. Ogni regista ha offerto il suo punto di vista, dipingendo il quadro della complessa situazione politica e civile: da Samuel Maoz con Lebanon (Leone d’Oro al miglior film nel 2009) fino ad una delle pellicole più interessanti dell’ultima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, L’Insulto di Ziad Doueiri (Coppa Volpi per il protagonista Kamel El Basha).
Brad Anderson, regista diventato famoso grazie al cinema di genere (con lungometraggi come L’Uomo Senza Sonno e Session 9), con il suo nuovo film costruisce sulla sceneggiatura di Tony Gilroy (Lo Sciacallo – Nightcrawler, The Bourne Identity) un’opera ben lontana dall’analisi introspettiva e socio-politica di una Beirut devastata, nel corpo e nell’anima, dalla guerra e dal conflitto di stampo religioso ed etnico. A differenza della cornice interpretativa critica, introspettiva o documentaristica che si adatta maggiormente a raccontare storie in zone di conflitto, Anderson gira un lungometraggio da un punto di vista occidentale, privilegiando la storia personale del protagonista e utilizzando la città come cornice per l’ambientazione esotica di una classica storia di spionaggio internazionale. Presentato al Sundance Film Festival e più recentemente all’Edinburgh International Film Festival 2018, Beirut in Italia è stato distribuito direttamente da Netflix.
Mason Skiles (Jon Hamm) è un giovane e affascinante mediatore internazionale, che vive e lavora nella Beirut dei primi anni Settanta, una città affascinante e libera dove gli occidentali vivono nel lusso, godendo della bellezza del Medioriente. Mason è felicemente sposato con Nadia, una bellissima donna libanese, frequenta i diplomatici di tutto il mondo insieme al suo migliore amico e collega Cal Riley (Mark Pellegrino) e ha intenzione di adottare Karim, un ragazzino palestinese rimasto orfano trovato in un campo profughi. L’apparente tranquillità di Mason viene spezzata da un attacco terroristico e dal rapimento del piccolo Karim, che si scopre essere il fratello di uno degli organizzatori dell’attentato al Villaggio Olimpico di Monaco del 1972 (costato la vita a 17 persone) ad opera del gruppo terroristico palestinese Settembre Nero. Durante l’irruzione nella villa di Mason la moglie Nadia perde la vita in uno scontro a fuoco, gettando l’uomo nella disperazione più totale. Solo e senza affetti Mason decide di abbandonare il Libano e la carriera diplomatica, facendo ritorno definitivamente negli Stati Uniti.
A distanza di dieci anni Mason non è più lo stesso uomo: diventato alcolista e manager di una piccola società di mediazione, non ha dimenticato le sue qualità diplomatiche; per questo motivo viene richiamato dalla CIA a Beirut con il compito di salvare l’amico Cal, rapito da una non ben identificata organizzazione terroristica palestinese il quale chiede uno scambio di prigionieri con Israele. A guidare le operazioni è l’agente Sandy Crowder (Rosamund Pike), una donna risoluta e apparentemente imperturbabile. Camminando sui ruderi di una Beirut completamente distrutta da dieci anni di conflitto, divisa tra fazioni cristiane, palestinesi e israeliane, Mason torna ad essere se stesso, mettendo in atto il piano per liberare il suo amico e ritrovando affetti che sembravano persi per sempre.
Beirut è uno spy thriller poco elaborato, la cui sceneggiatura divide in maniera didascalica la vita del protagonista in un primo e secondo tempo. I personaggi sono poco approfonditi e la regia è polverosa e poco incisiva; seppur sia ambientato durante un conflitto sanguinoso come la guerra civile del Libano, l’atmosfera che Brad Anderson costruisce è relativamente tranquilla e l’azione è ridotta all’osso, probabilmente perché il cineasta, nelle sue intenzioni, voleva privilegiare l’operazione diplomatica e l’introspezione dei tre personaggi principali. Operazione che non è assolutamente riuscita in quanto ad emergere è soltanto, parzialmente, il protagonista.
L’idea alla base della sceneggiatura di Tony Gilroy è accattivante ma corrotta da un punto di vista troppo occidentale, che risulta fastidioso per superficialità e stereotipi. Beirut sembra il classico film dalle grandi aspirazioni che però non riesce ad incastrare e sviluppare gli elementi portanti di uno script complesso, risultando piatto e poco graffiante. Convincente invece è stata la scelta degli attori protagonisti, con un ottimo Jon Hamm che costruisce da sé tutte le contraddizioni del suo personaggio e una bravissima Rosamund Pike, che dimostra ancora una volta la sua versatilità nonostante venga ostacolata da una sceneggiatura che non la valorizza come dovrebbe.
Beirut è ben lontana dall’essere una pellicola impegnata ma, nonostante tutti i suoi difetti, riesce ad intrattenere lo spettatore nel corso dei suoi 109 minuti di durata.