Nella vita, arriva sempre quel momento in cui ci si deve scontrare con la realtà. Di solito non ci siamo mai preparati prima, nessuno ci ha detto di farlo e da soli, di certo, non avremmo mai pensato che qualcosa potesse andare male. All’alba dei quarant’anni, Joanne (Cobie Smulders), leader storica di un gruppo Britpop assai popolare negli anni ‘90 – The Filthy Dukes – viene improvvisamente scaricata dagli altri membri della band che non ne vogliono più sapere di continuare con la carriera musicale complice, forse, un ultimo, deprimente concerto di fronte a una platea piuttosto imbarazzante. Presentandoci fin dal primo fotogramma un assaggio di un’intervista a Joanne seguita dal video di una delle hit del gruppo, Jamie Adams ci presenta uno spaccato talmente verosimile che per un attimo siamo quasi tentati, ancora in sala, di afferrare il telefono e controllare su Google che queste The Filthy Dukes esistano davvero – e sì, esiste sul serio un gruppo omonimo. Ma Songbird non vuole indagare il triste declino di quella che fu una star. Al contrario, è un percorso di crescita e cambiamento piuttosto sottotono che non riesce a entusiasmare gli animi come vorrebbe.
Il vero punto d’avvio nella trama si registra a poche ore dallo scioglimento della band. Non è difficile immaginare che Joanne per superare la crisi si dia senza speranze all’alcool e che, ancora meno difficile da immaginare, venga accompagnata nella lunga notte alcolica da un’amica di vecchia data, Sara (Jessica Hynes). Per continuare sul filo della prevedibilità – perché, insomma, chiunque si ubriachi per dimenticare finirà per fare qualcosa di incredibilmente stupido – Sara farà davvero qualcosa di stupido. Ma se ci aspetteremmo, che so, che chiami l’ex di Joanne o faccia scherzi telefonici, ecco che ci viene servito il colpo di scena: si iscrivono entrambe all’università. In una sequenza totalmente surreale, le due amiche discutono di quale facoltà possa essere più indicata per Joanne. La scelta ricade su biologia marina perché, come Sara scrive nella lettera motivazionale, alla sua amica piace moltissimo il pesce, anzi, le piacciono tanti tipi di pesce cucinati in svariati modi e, proprio per questo, le sembra il caso di provarne a sapere di più. Se già non sapessi che per iscriversi a un’università in UK basta sborsare soldi e poi si può anche scrivere la lista della spesa come motivazione per la scelta, ecco qua la conferma definitiva.
Una volta che l’iscrizione viene formalizzata – ancora una volta in una sequenza priva di senso che ci fa ancora più preoccupare per il funzionamento delle università nel Regno Unito – il giro del campus è d’obbligo. Ad accompagnare le due donne è Pete (Richard Elis) che aveva già incontrato Joanne al pub la sera della rottura con la band e, senza giri di parole, non aveva perso tempo a dirle in faccia che assomigliava tantissimo a quella cantante di quel gruppo parecchio brutto che andava tanto di moda negli anni ‘90. Tutto questo prima di rendersi conto che sì, lei è proprio la cantante di quel gruppo. Tra scenette comiche piuttosto tiepide che hanno smesso di far ridere quindici anni fa e una trama che si perde velocemente nel melenso, Songbird fa davvero fatica a ingranare e non sembra neppure metterci troppo impegno.
Neanche il confronto generazionale riesce a suscitare il benché minimo interesse nel pubblico. Le compagne di college millennials di Joanne sembrano essere più interessate a smoothie e cavolo riccio (kale, in inglese) senza chiaramente avere la benché minima idea di chi sia Joanne. Allo stesso tempo, la generazione della cantante è descritta come festaiola e cresciuta a pane e rock ‘n’ roll, in poche parole la quintessenza dello stereotipo.
Le cose non vanno molto meglio neanche sul fronte della storia d’amore che piano piano si sviluppa. Il tentativo di rovesciare lo stereotipo di genere con una lei parecchio intraprendente e sessualmente libera e un lui piuttosto pudico e imbranato in perfetto stile orsone tenero è piuttosto debole e di dubbia riuscita, almeno al netto dell’intera pellicola. Il cambiamento emotivo di Joanne e la nuova rotta che cerca di dare alla sua vita sono esiti piuttosto scontati di una sceneggiatura che sembra sforzarsi al minimo sindacale per portare avanti l’intero film.
Quella di Songbird dunque è più di un’occasione mancata, dal momento che la pellicola non riesce a proporre neanche la benché minima trovata che possa suscitare interesse, che sia in termini di regia, fotografia o sceneggiatura. Anche la recitazione si piazza perfettamente nella media, senza colpi d’ala né strafalcioni pesanti. Così, a conti fatti, Songbird diventa una di quelle pellicole perfettamente dimenticabili che, anzi, non c’è neanche troppo bisogno di guardare in prima battuta. Una di quelle che difficilmente guadagneranno un’uscita in sala e che possono andare a rimpolpare le fila del catalogo Netflix in attesa che qualcuno, a corto di materiale per immergersi nel binge-watching, finisca a fare click sul titolo.