Quando un film è tratto da un libro è cosa buona e giusta non fare alcun parallelismo tra i due in quanto, vi avranno ripetuto fino alla sfinimento: i media sono ben diversi e, per forza di cose, le esigenze narrative subiranno delle modifiche necessarie. Ma è indubbio che un film che ti faccia correre in libreria non appena terminati i titoli di coda sia un film che ha fatto quantomeno il suo dovere. È questo il caso di Piercing, opera seconda del giovane regista americano Nicolas Pesce, presentata in Italia al 36. Torino Film Festival.
In breve, il Piercing di Pesce è un adattamento in salsa occidentale del Piercing di Murakami Ryū. Con questo si intende, molto semplicemente, che gli attori e i nomi dei protagonisti sono stati tutti occidentalizzati mentre alcuni interni trasudano quel tanto di orientalismo che basta per rendere le scenografie ricercate. Reed (Christopher Abbott) sente l’impulso irrefrenabile di pugnalare con un punteruolo da ghiaccio la figlia ancora nella culla, il tutto completamente all’oscuro della moglie Mona (Laia Costa). Così, da un giorno all’altro, l’uomo saluta la famiglia per dirigersi verso un albergo del centro dove alloggia per qualche giorno. Il piano, meticolosamente messo appunto, è quello di poter dare finalmente sfogo alla sua pulsione uccidendo un’ignara prostituta. Alla sua porta però fa la sua comparsa Jackie (Mia Wasikowska), decisamente l’opposto della tipica vittima passiva.
Autore di una pellicola esteticamente impeccabile, Pesce costruisce la sua personale lanterna magica dentro alla quale fa muovere, come piccole figurine, tutti i suoi personaggi. Così il film si apre su un centro urbano in notturna che sembra fatto di cartone, con le finestre illuminate di quel bel giallo caldo e una colonna sonora che fa pensare a un thriller degli anni Settanta. Tutto in Piercing è sofisticato: dalle inquadrature attente ai movimenti di macchina decisi, passando per luci soffuse che aprono a chiaroscuri che scolpiscono alcune delle scene in interni più importanti.
Ma se il comparto estetico è decisamente inattaccabile, è forse quello contenutistico che registra alcuni problemi. Adattare un romanzo per lo schermo comporta, come noto, alcuni rischi e se, da un lato, il compito principale è quello di mantenere intatta l’anima della storia, dall’altro si deve anche prestare attenzione che alcuni dettagli importanti della trama siano ancora presenti nel nuovo ordito così come nel prodotto finale e non soffrano quindi di eccessivi tagli dovuti al metraggio. Questo purtroppo sembra non essere il caso di Piercing. Se la storia tutto sommato regge e rimane coerente, in linea di massima la pellicola soffre di una natura un po’ bozzettistica, come se l’intero film andasse avanti più per impressioni che non seguendo un quadro ben preciso nelle menti di sceneggiatore e regista.
Anche la recitazione però segna un punto a favore per il lavoro di Pesce. Wasikowska mette a punto un’interpretazione credibile e d’impatto, dimostrando di essere perfettamente in grado di dominare la scena quando il personaggio lo richiede. Anche Abbott convince con il suo Reed maniacalmente intrappolato nelle proprie perversioni anche se forse un po’ avaro nel suo ventaglio espressivo. La sinergia tra i due è però innegabile e la chimica che vediamo riflettersi sullo schermo è quella che dà la carica emotiva a buona parte del film. Anime tormentate racchiuse tra quattro mura, Reed e Jackie si rincorrono in un girotondo sadico alla ricerca di quel piacere assoluto che raggiungono solo quando riescono a infliggere dolore all’altro. In questo modo, Pesce confeziona un prodotto che sì ammalia per la sua perfezione visiva ma che sembra presentarsi più come un laboratorio registico che non come un film perfettamente compiuto.