Di fronte a un dilemma morale apparentemente semplice da sciogliere, come si comporterebbe un benestante uomo d’affari occidentale, ligio al dovere, cinico ed estremamente produttivo? Su questa domanda Antoin Russbach costruisce Those Who Work, pellicola presentata in concorso al 71. Locarno Festival e ora in concorso al Lucca Film Festival e Europa Cinema 2019. Dramma etico e familiare che vede nel cast quell’Olivier Gourmet (Le Fils, Rosetta, La Promesse) tanto caro ai fratelli Dardenne, Those Who Work chiama direttamente in causa lo spettatore, spinto da un lato a immedesimarsi con un protagonista ossessionato dalle ambizioni lavorative e dall’altro verso il normale buon senso. Frank gestisce con successo i trasporti marittimi per la propria azienda, è il primo ad arrivare in ufficio e l’ultimo ad andarsene la sera. Quando viene avvertito della presenza di un immigrato a bordo nell’ultima spedizione da lui organizzata si trova costretto in poche ore prendere una decisione e affrontarne le conseguenze: riportare il clandestino in Liberia, rischiando di far scadere i prodotti del carico e far imbestialire i clienti, oppure disfarsene in mezzo al mare?
Basta poco per intuire quale sarà la scelta del protagonista, quasi preannunciata nel momento in cui chiede con tono intimidatorio al ragazzo di una delle figlie se questo stia dalla parte della gente che lavora – come da titolo – o dalla parte di chi protesta, reclama, chiede i diritti che gli spettano. La decisione sarà presa per telefono, con un gioco al rialzo sulla somma da offrire a chi si sbarazzerà del liberiano. Ecco che le conseguenze di una tale scelta stravolgeranno la vita dorata della famiglia, Frank in particolare, portandolo da qui in avanti a dover intraprendere un percorso fitto di altrettanti bivi – peraltro progressivamente dettati anche dalle condizioni economiche in peggioramento – e dai ricordi di un’infanzia difficile con la quale giustificare il proprio temperamento. A questo punto sarà soltanto l’innocenza della figlia più piccola a poter redimere il padre.
Il film di Russbach ha il vantaggio di giocare su una questione attuale guardandosi bene dall’esaminarne gli aspetti macro e strutturali, rendendo invece tutto prettamente individuale tanto nella scelta quanto nelle conseguenze. Frank sarà vittima a sua volta di un’asta sulla propria pelle tipica di chi è ricattabile, proprio come quella da lui proposta all’equipaggio dell’imbarcazione ai danni dell’immigrato. Con l’escamotage del progetto scolastico che vede i figli dover visitare il posto di lavoro dei genitori, Russbach quindi tenta di scuotere il proprio protagonista, con una scena finale che rivelerà il successo o il fallimento dell’ operazione. La pellicola allora si muove tra il dilemma morale già evocato e il dramma di un uomo che non conosce la sconfitta ma che all’improvviso deve affrontarla e spiegarla a moglie e figli viziati da sempre. Non è dunque fuori luogo comprenderlo pur non giustificandolo, essendo ingabbiato a sua volta in un sistema che vuole scalare ma che lo tiene in pugno: scontentare i clienti e i piani alti dell’azienda equivale nella sua ottica a una morte tale e quale a quella dello sconosciuto profugo. L’analisi psicologica alla quale Frank si sottopone dopo il licenziamento è poi uno smaliziato strumento usato per comunicarci direttamente l’impressione che lui ha di sé, mentre il seminario con persone in difficoltà economiche e mentali ci permette di capirne la natura nichilista e il mito dell’uomo che si è fatto da solo e che va incontro agli ostacoli senza battere ciglio (la doccia fredda che lo sveglia ogni mattina è più un vezzo che un’esigenza). D’altra parte del suo atteggiamento a tratti capriccioso ne era già stata testimone una scena da manuale, quando nell’attesa del messaggio di conferma sulla morte dell’immigrato il nostro protagonista si baloccava con la comoda sedia da scrivania appena arrivata in ufficio. L’impressione generale è proprio che sia stato fatto un lavoro impeccabile specialmente nei dettagli, difatti è un piacere notare come con semplici sguardi, inquadrature ben studiate e dialoghi scarni si siano riuscite a organizzare dinamiche familiari di un realismo raro: i cinque figli sono spesso evocati ma poco mostrati, eppure in quei preziosi minuti vengono a galla preferenze o incrinature nei loro rapporti con il padre, umanizzato in casa e macchina da guerra sul lavoro. Il risultato è un film che se a livello estetico non sperimenta né azzarda, sul piano tematico mette in campo una gamma di interrogativi e di bivi etici decisamente efficaci.