Spesso si ha l’impressione che per ogni festival del cinema debba esserci quel film che, a pochi minuti dall’inizio, a circa metà o persino dopo i titoli di coda, ti faccia ripetutamente chiedere “Perché?”. Ma questo perché ha di solito mille sfumature. Talvolta si tinge di puro stupore, altre si erge invece a paladino di un qualche pudore che pensavamo di non avere più in noi. Novantanove volte su cento invece questo piccolo perché non porta mai niente di buono e Adam und Evelyn (Adam & Evelyn) non rientra purtroppo in quell’1% che serve a confermare la famosa regola.
Come parte della Settimana della Critica, il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani ha pensato di portarci a far conoscere il produttore e adesso regista tedesco Andreas Goldstein. Per questo suo lungometraggio si è deciso di ambientare la storia nell’estate del 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino. Adam (Florian Teichtmeister) è un sarto e vive nella Germania Est insieme alla compagna Evelyn (Anne Kanis), che lavora come cameriera. Poco prima di partire per le vacanze, Evelyn torna a casa da lavoro prima del solito e trova Adam con una cliente in una posa che con difficoltà diremmo che indichi tradimento ma che, a giudicare dalla reazione della ragazza, viene interpretata proprio come tale. Arrabbiata, Evelyn decide di partire per l’Ungheria con un’amica e il suo amante ma arrivati a destinazione non passa troppo tempo prima che vedano comparire Adam, intenzionato a risolvere la situazione con la fidanzata.
A metà tra road movie e riflessione esistenziale sullo sfondo di una Germania divisa nella politica ma unita nelle frustrazioni individuali, Adam und Evelyn si porta avanti con un’estrema lentezza, incespicando inizialmente su lunghi e curiosi intermezzi in cui la telecamera si fissa su scorci bucolici o sulla tartaruga del protagonista che si muove lenta nell’erba. Di fronte a certe inquadrature è impossibile non chiederci quale fosse l’intenzione del regista e in che misura quindi abbia deliberatamente deciso di voler interrompere il ritmo narrativo per dedicarsi a mostrarci un particolare albero, o l’esterno della casa dove la coppia vive.
Dove con le immagini non si riesce a costruire una pellicola pienamente convincente, sono i dialoghi ma ancor più i silenzi e gli sguardi colmi di un languore disperato che in più di un punto riescono a veicolare quel disagio esistenziale dovuto alla perdita del senso di appartenenza. Stranieri in patria ma ancor più varcati i confini delle due Germanie, la strana comitiva formata da Adam, Evelyn, l’amante dell’amica e una ragazza che Adam ha aiutato illegalmente ad attraversare il confine con l’Ungheria, si trova invischiata in drammi sentimentali e noie burocratiche dovute a dei passaporti rubati. Ma è quando Goldstein decide di far dialogare, separatamente, i due uomini e le due donne che dispiace vedere come si cada in un certo vizio di rappresentazione che ancora si fa fatica a perdere. Se infatti da un lato vediamo gli uomini discutere non solo della speranza che in un futuro non così lontano si riesca a combattere l’invecchiamento cellulare ma anche della vita nella Germania dell’Ovest di contro a quella nell’Est, dall’altro alle donne è riservato solamente lo spazio di un breve scambio di pareri sui rispettivi amanti e un accenno vago a progetti di studio futuri, tralasciando completamente la possibilità di un qualsiasi tipo di confronto tra le due.
Piuttosto lontano dal lirismo che talvolta investe il cinema di Angela Schanelec – altra esponente di un modo di fare film spesso cerebrale ma che sembra fluttuare sospeso nel tempo – Goldstein, benché di buoni propositi, fallisce nel presentarci un ritratto convincente di una generazione perduta. Quello che ci resta dopo la visione di Adam und Evelyn è l’amara sensazione di aver perso un’occasione, di essere arrivati molto vicini a toccare qualcosa di significativo che però ci è sfuggito tra i confini di un film troppo presto dimenticabile.