Diciamo la verità. Fino all’uscita del film di Jay Roach, e della nomination dell’ormai lanciatissimo Bryan Cranston, la domanda su chi fosse Dalton Trumbo avrebbe fatto vincere il montepremi finale di Chi Vuol Essere Milionario.
In realtà gli addetti ai lavori, i mitologici cineasti, avranno ritenuto cosa buona e giusta rendere omaggio ad uno degli sceneggiatori più prolifici e visionari del Cinema in bianco e nero (e del primo colore) di una Hollywood che fu, capace di vincere 2 premi Oscar e dare vita a film ancora oggi godibili, come il più volte citato in corsa Vacanze Romane o l’opera di un certo Stanley Kubrick, Spartacus, con protagonista un combattivo Kirk Douglas. Eppure la prospettiva dell’autore statunitense non è che l’ennesima pellicola su una delle pagine più tristi del passato recente della democrazia occidentale con più contraddizioni in assoluto, quella a stelle e strisce.
“You’re goddamn left!”
Il famigerato “maccartismo” sporcò l’immediato secondo dopo guerra, dando all’alba della Guerra Fredda un tono da Santa Inquisizione, con una vera e propria caccia al “comunista”. Il clima di quegli anni è ben riprodotto, con sguardi torvi e accusatori da parte di vicini di casa e colleghi “fieri patrioti”. Fra questi merita una citazione John Wayne, vero e proprio punto di riferimento dell’ala conservatrice dell’epoca. Un’epoca tanto lontana quanto avvilente, appunto.
Molti film ci hanno raccontato questa vergogna.
Tra questi ricordiamo uno straordinario Woody Allen ne Il Prestanome (dove rinuncia grandemente alla propria indole sarcastica per cucirsi addosso un ruolo di una intensità forse non più esplorata), il meraviglioso Come Eravamo, pietra miliare della Bellezza fatta Cinema, dove Barbra Streisand e Robert Redford riescono ad amalgamare forma e sostanza in un percorso delizioso d’amore, malinconia e coscienza civile. Fino al più recente e piacevole Good Night and Good Luck con un George Clooney discretamente ispirato.
Ne La vera storia di Dalton Trumbo la prospettiva è quella di un uomo artisticamente vincente, benestante ma attento a tutti coloro che animassero il Circo di Hollywood, talmente convinto delle proprie ragioni di libertà di pensiero ed espressione da finire in carcere per esse.
Inforcati gli occhialetti intellettuali, con la costante sigaretta in bocca, spesso in vasca da bagno e le dita sulla macchina da scrivere, Cranston comincia da subito la propria personale battaglia con l’ombra di Walter White, cercando di caratterizzare quanto più possibile un uomo calato nel suo tempo e pronto a combattere contro l’ottusità della censura.
La storia si sviluppa in modo credibile e con un buon ritmo. Le figure che ruotano attorno a Cranston lo fanno con discrezione (da annotare un bravo Louis C.K. per tutti gli amanti degli stand up comedians d’oltreoceano) e tra queste spiccano una bravissima Helen Mirren, nei panni di una rigida e influente “blogger dell’epoca” (Hedda Hopper) ed il cameo di John Goodman, totalmente a suo agio nei panni di un produttore di second’ordine, abile nello sfruttare l’occasione dei tanti autori costretti a scrivere sotto pseudonimo, rinchiusi in una famigerata “lista nera”.
In un lasso di tempo sopportabile, Roach riesce a raccontare il padre di famiglia (curiose le assonanze con il “cuoco” troppo preso da se’ stesso di Breaking Bad), le contraddizioni dell’Uomo, le frustrazioni del professionista, l’ambizione di chi, vincendo la nebbia di anni difficili, riemerge a testa alta in un Mondo, quello dell’intrattenimento, mai sazio di eroi e lieto fine. Appunto.