Descrivere un’esistenza ai margini della realtà e poi indagarne le conseguenze a livello familiare: l’obiettivo di Yuva, lungometraggio firmato dal turco Emre Yeksan presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 75 e disponibile in streaming su Festival Scope, è ambizioso tanto in termini di conflitto interiore quanto sul piano dei rapporti interpersonali, sullo sfondo poi di una sfida a un intero sistema di organizzazione sociale. Il protagonista omonimo vive infatti in un capanno nel bosco senza alcun contatto con il moderno e le sue comodità, finché la vendita del terreno non costringerà il fratello a fargli visita nella speranza di convincerlo a tornare in paese.
Lo sforzo principale del lavoro di Yeksan pare allora consistere nel tentativo di fornire immediatamente allo spettatore una sorta di mappa dello spazio d’azione, così che già con le prime inquadrature si possa assistere alla costruzione del territorio del protagonista, dei suoi rifugi, delle sue aree di vita e di quelle invece da cui stare alla larga. L’idea è quella del luogo arcadico, della zona bucolica scenario dei miti non a caso spesso associati alle zone boschive della Grecia e della Turchia. Fin troppo esplicita risulta allora in questo senso la scena in qui Yuva si intreccia intorno al braccio un ramo d’edera quasi a sentirsi parte della foresta e creatura più vegetale che umana, così come estremamente scolastica è quella in cui urla e ulula in preda alla rabbia contro un elicottero che sorvola la zona. Ma Yeksan si guarda bene dal consegnare allo spettatore tutte le informazioni espositive di cui avrebbe bisogno per contestualizzare al meglio i fatti mostrati, così in prima battuta si ha la sensazione di poter addirittura collocarlo dalle parti del film di sopravvivenza o post apocalittico: Yuva si sposta nella foresta con zaino e cane fedele al seguito, depura l’acqua del fiume travasandola in particolari contenitori, marca il territorio dipingendo i tronchi degli alberi. Basta poco invece per intendere che la routine descritta nei primi minuti di pellicola si sia consolidata in anni di lontananza dalla civiltà: il protagonista conosce il bosco, si sa muovere, si affida a un ragazzo del posto per avere i pochi rifornimenti necessari. È fino a questo momento un film pressoché muto, fatto di establishing shots sul bosco nebbioso, sulla grotta segreta dove Yuva nasconde prima un cervo e poi una donna ferita, di dissolvenze incrociate sui rami che si intrecciano e di movimenti di macchina dal generale al particolare sempre indirizzati a quella conoscenza dello spazio boschivo prima evocata. È evidentemente l’arrivo del fratello a rompere una tale linearità e a consegnarci la chiave di lettura per quanto visto fino a quel momento. Si procede dunque con il classico ricordo, rigorosamente durante il momento del pasto, dei vecchi traumi non ancora risolti e delle frizioni familiari che si ripresentano ciclicamente e che andranno risolte in modo definitivo.
È qui che il lavoro di Yeksan si incarta e fatica per la prima e unica volta. Il discorso sulla sfida al sistema, sulle motivazioni che hanno portato Yuva a una scelta di vita così drastica, sul rapporto con il fratello, dopo essere state soltanto accennate, vengono meno in favore di un’ultima parte che fatica a trovare la propria strada, che gioca con il fantastico – ed ecco tornare l’elemento mitologico – e con lo spirituale senza che ce ne sia la necessità, per poi provare infine una sorta di slittamento del protagonista: non più lo Yuva del titolo ma il fratello immerso nella nuova realtà del bosco, costretto a fare i conti con quegli antagonisti che fino a quel momento erano rimasti passivi sullo sfondo. Non fosse per l’evanescenza di un tale finale, si parlerebbe di un film quasi intoccabile.