Attrarre e far vincere nella categoria Orizzonti della 75 Mostra internazionale del cinema di Venezia un film come Manta Ray (titolo originale Krabe Rahu) sono due degli ormai molti segnali che hanno fatto della manifestazione di Alberto Barbera probabilmente la più prestigiosa al mondo. Il lungometraggio di Phuttiphong Aroonpheng, al cinema del 10 ottobre con Mariposa Cinematografica, è una delle esperienze più belle che un appassionato di cinema, non necessariamente cinefilo, possa regalarsi sul grande schermo. Il regista thailandese accende un faro sulla persecuzione birmana del popolo Tohingya, a cui dedica la pellicola, il quale per salvarsi è costretto ad emigrare nei paesi vicini sfidando il mare e spesso trovando la morte.
Un uomo che vive in un piccolo villaggio e lavora in una fabbrica per la commercializzazione del pesce, passa il suo tempo nella vicina foresta dove hanno finito il loro viaggio tanti tohingya in cerca di rifugio, ma le loro anime nell’oscurità di una vegetazione invadente ed invasiva continuano ad emanare energia vitale nella natura selvaggia fatta di luci, suoni e lamenti. Un giorno trova un rifugiato ferito che non parla la sua lingua; lo soccorre, lo porta a casa, lo cura, lo riabilita e lo chiama Thongchai come un famoso cantante thailandese. Ma durante una battuta di pesca il soccorritore scompare in mare. Il tohingya lo cerca invano, quindi continua ad abitare la sua casa e pian piano si impossessa della sua identità, fino a prendersi anche la sua donna, tornata al villaggio dopo essere stata cacciata da un ufficiale della marina di cui si era innamorata e per il quale si era allontanata.
Il plot della pellicola è molto semplice ma la grandezza di Phuttiphong Aroonpheng è quella di corredarlo di una struttura narrativa e tecnica solida e raffinata. Il tema dei rifugiati, che pur ne fa un film altamente politico nel senso più alto e nobile del termine, in Manta Ray appare quasi un pretesto per mettere in scena il ciclo della vita dove tutte la parti dell’uomo e della natura umana convivono, si confondono, si scambiano e ruotano come in un caleidoscopio. Non è forse un caso che il titolo rimanda ad una sorta di “panta rei” di un’umanità dove il tempo e il logo sono il discrimine che designa i ruoli ora di vittime e ora di carnefici. Così come la manta nella scena finale che nuota libera e leggera nei fondali marini in cerca di nuovi luoghi, nuovi spazi e nuovi tempi.
La visione di Phuttiphong Aroonpheng è poetica; spesso è un’immersione psichedelica attraverso cui lo spettatore, se non farà resistenza, sarà trascinato in una visione onirica e magica, sebbene crudele come la foresta. Buona parte del film si regge sul non detto (nei quindici minuti iniziali non c’è un solo dialogo e lo stesso tohingya ferito non proferisce parola perché non conosce la lingua). Nonostante ciò la pellicola è solida e tutt’altro che noiosa. Lo stesso si può dire per l’uso della simbologia, che però il regista thailandese mette in scena con discrezione, tenendosi quindi sapientemente lontano dall’autoreferenzialità. I movimenti della macchina da presa sono perfetti, sia quando le inquadrature sono fisse sia quando l’obiettivo esplora lentamente luoghi e persone. Una menzione particolare alla colonna sonora e alla fotografia: un “canto” corale delle immagini, dove la luce è decisamente uno dei punti di forza del film. Wanlop Rungkumjad, Rasmee Wayrana e Abhisit Hama attori molto bravi e diretti magistralmente.