Chi scrive è convinto che, per nobile che sia l’esercizio dell’analisi critica, quelli che profondono le proprie forze nella realizzazione di una pellicola – fosse anche solo per la grandissima mole di lavoro, la passione, e l’ampio numero di professionalità che questa richiede – avranno sempre e comunque più dignità di chi si ‘limita’ a spiegare e giudicare quel lavoro dietro la trincea di una tastiera. Se però è vero che tutti i cineasti, e ancor più quelli alle prime opere, meritano grandissima comprensione e rispetto da parte della critica, è altresì vero che quello stesso rispetto è dovuto allo spettatore, e che alcuni lavori sono confezionati con una trascuratezza tanto disarmante da trasformarsi in un insulto verso chi il cinema lo prende come una cosa seria.
Ahimè è proprio questo il caso di Go Home – A Casa Loro, secondo lungometraggio di finzione di Luna Gualano, che viene presentato in anteprima ad Alice nella Città nell’ambito della Festa del Cinema di Roma, nella sottosezione Panorama Italia. Go Home, fatta salva la bellissima locandina siglata da Zerocalcare, la colonna sonora e la lodevole iniziativa di inclusione sociale da cui nasce, è un fallimento su quasi ogni fronte; un lavoro davanti al quale verrebbe quasi da pensare che la regista e lo sceneggiatore non abbiano mai visto un film in vita loro. Eppure Luna Gualano non è affatto una sprovveduta: ha dimostrato in molte occasioni un vivo talento nel videoclip – materia di cui è anche insegnante in una nota scuola romana – e con la sua pellicola precedente ha pure meritato due premi al ToHorror Film Festival; motivi per i quali questo ‘incidente di percorso’ è ancora più sorprendente.
UN SOGGETTO GENIALE PER UN CINEMA NECESSARIO
All’autore Emiliano Rubbi va riconosciuto il merito di quello che – in potenza – è uno dei più geniali soggetti nei quali ci sia capitato di imbatterci negli ultimi anni. Infatti Go Home – A Casa Loro si colloca concettualmente nel solco dei migliori horror di George Romero, nei quali la componente visionaria e orrorifica diventava una piattaforma per un fortissimo messaggio politico.
Mentre un gruppo di militanti di estrema destra manifesta rumorosamente al di fuori di un centro d’accoglienza per immigrati, un’improvvisa ‘apocalisse zombie’ li stermina e costringe l’unico superstite tra i fascisti (ben interpretato da Antonio Bannò) a dissimulare la propria appartenenza politica e a rifugiarsi tra quegli africani che tanto ripudia. La permanenza coatta con gli ospiti e i lavoratori del centro metterà il protagonista a stretto contatto con un mondo di solidarietà e accoglienza che è lontanissimo dal suo, fino a un finale che darà un senso profondo (e inaspettato) all’idea di partenza.
Il concept alla base del film non è solo un’intuizione brillantissima, ma è anche lo specchio di quell’impegno sociale che è sempre più assente nel cinema italiano e del quale invece ci sarebbe un grande bisogno. Il messaggio della pellicola è infatti chiaro e tutt’altro che retorico, e quindi onore al merito della Gualano e di Rubbi per aver sfruttato la propria posizione di artisti e autori per lanciare un segnale di apertura e inclusione – mai così necessario. Il ricorso al cinema di genere per compiere tale operazione, poi, è un altro aspetto particolarmente meritevole dei loro sforzi.
UNA SCENEGGIATURA QUASI INADEGUATA A STANDARD PROFESSIONALI
Al netto di ciò, Go Home sembra perdere per strada i buoni intenti sin dalle primissime battute, a causa di una sceneggiatura in cui gli eventi si susseguono senza alcuna vera causalità e dove i personaggi hanno comportamenti ai limiti del demenziale. Ad aggravare i problemi di scrittura c’è una direzione che non riesce a trarre nulla di buono da degli attori evidentemente non professionisti e che – complice una fotografia particolarmente povera – fatica terribilmente nell’allungare il brodo per 85 minuti, tanto da ricorrere a tre interminabili momenti musicali nei quali la Gualano si scorda di non chiamarsi Paul Thomas Anderson.
Gli spunti simbolici offerti dallo script sono evidentemente molteplici: si sarebbe potuto scegliere di raccontare l’intolleranza come un virus che trasforma in mostri, l’epidemia zombie come allegoria dello stigma sociale, l’opportunità di salvezza offerta al protagonista come richiamo al tema dell’asilo politico; e ancora si sarebbe potuto esplorare il tema del riscatto, quello dell’integrazione e quello dell’impatto sulla collettività delle vicende raccontate. A tutto ciò invece nello script vi sono solo timidissimi e bidimensionali accenni (a prescindere di quali fossero le intenzioni dell’autore), e la storia prosegue meccanicamente senza mai scalfire la superficie, senza idee che suscitino il benché minimo pensiero e senza emozione alcuna. Almeno fino al finale, forte di un’intuizione straordinaria nel suo rinnegare ogni retorica buonista, ma ancora una volta realizzato malamente.
NON VA NEMMENO LA COMPONENTE HORROR
L’incertezza nel ritrarre i sentimenti e le pulsioni del protagonista lo priva di contorni netti senza però renderlo interessante, tanto che – pur alla luce della conclusione – l’assenza di un arco evolutivo in senso tradizionale pare più una conseguenza non desiderata che una scelta consapevole. Quel che stupisce è come Go Home – A Casa Loro sembri ignorare tutte le brillanti soluzioni con cui gli autori degli horror moderni motivano l’ingestibilità di situazioni che sarebbero altrimenti facilmente risolvibili: l’impossibilità di trovare un solo telefono (cellulare o fisso) o di avere informazioni sull’epidemia da TV e radio diventano così ingiustificabili, ma quasi spariscono di fronte al fatto che nessuno dei personaggi provi a contattare in qualche modo (concreto) l’esterno.
Se a ciò aggiungiamo che i non morti agiscono con fare decisamente caricaturale e che la regista non coglie l’opportunità per costruire un minimo di tensione anche laddove avrebbe dei jump scare efficacissimi (c’è una scena di preghiera vicino a uno zombie in trasformazione che avrebbe offerto una chance perfetta a qualsiasi autore horror), è evidente che la pellicola fallisce non solo nel veicolare lucidamente un messaggio politico, ma anche nel mettere in scena uno zombie movie degno di questo nome. Dove ci si dovrebbe emozionare o spaventare e dove ci dovrebbero essere spunti di riflessione, semplicemente, si ride. E non perché fosse nelle intenzioni iniziali.
L’ETEROGENESI DEI FINI E LA COMICITÀ INVOLONTARIA
Mai e poi mai si deve ridere del nobilissimo (anche se non riuscito) lavoro di qualcuno. Quando però la messinscena dei momenti ‘drammatici’ è nell’insieme tanto grossolana da finire per suscitare continuamente e involontariamente risate di gusto da parte di una fetta molto cospicua della sala, è evidente che qualcosa è andato storto e che la colpa di quella reazione non può essere degli spettatori. Le interpretazioni a dir poco naïf e l’andamento erratico delle azioni dei comprimari sono sicuramente la ragione principale di questa imprevedibile reazione che la pellicola suscita in buona parte del suo pubblico, ma il problema è che sembra proprio all’autrice sia completamente sfuggito il controllo sulla sua opera.
UN BEL PROGETTO SOCIALE E BASTA
Le registe donne sono così poche e si muovono su un terreno così ostile che ci dispiace con tutto il cuore di non poter supportare proprio il film di una ragazza che in passato ha già dimostrato di avere determinazione, visione e talento. Non sappiamo cosa, nel processo produttivo e realizzativo, abbia comportato un risultato così deludente, ma è ovvio che nel rapporto tra l’artista e la sua pellicola qualcosa di importante si è rotto, e che nella confezione del film ci sono state troppe distrazioni (guai a dare la colpa solo al budget modesto).
Go Home – A Casa Loro rappresenta una grande e meritoria iniziativa che coinvolge una moltitudine di forze eterogenee e che, partendo dal basso, include nella macchina produttiva anche coloro cui difficilmente viene data voce – in coerenza con l’operato dell’associazione della regista, Il ponte sullo schermo, che mira a insegnare il linguaggio cinematografico alle categorie deboli e a rischio. Nel momento in cui il risultato viene inspiegabilmente incluso in un cartellone festivaliero di opere dai connotati marcatamente più professionali, però, anche la più benevola indulgenza viene messa alla prova.
A Luna Gualano ed Emiliano Rubbi riconosciamo la grande intuizione iniziale, l’importanza dell’impegno politico, la determinazione di essere ricorsi in parte a un finanziamento in crowdfunding e il coraggio di fare cinema impegnato passando per il genere. Purtroppo il risultato non è quello che ci saremmo aspettati, ma siamo certi che Go Home sia solo un passo falso e che entrambi avranno ancora molte occasioni per far fruttare al meglio il proprio talento.