A 7 anni di distanza dal suo debutto cinematografico con L’Ultimo Terrestre, e dopo la parentesi di Smettere di Fumare Fumando, Gian Alfonso Pacinotti torna dietro la macchina da presa per Il Ragazzo Più Felice del Mondo, che a due mesi dalla presentazione in Sconfini alla 75. Mostra del Cinema di Venezia arriva finalmente l’8 novembre nelle nostre sale con Fandango.
Pacinotti (qui la nostra intervista in collaborazione con WGI), che con l’inizio del suo percorso nella settima arte volle recuperare il cognome del padre come atto di gratitudine verso chi l’aveva introdotto ad essa, è in realtà più noto come Gipi: è infatti con questo pseudonimo che l’illustratore e autore pisano si è imposto nel mondo del fumetto italiano – e non solo. Se il suo raro talento di raccontare sulla pagina si avvale (anche) dei tenui ma potentissimi cromatismi dell’acquerello, il suo linguaggio filmico è lontano da ogni pittoricismo, e anzi fa di una consapevole e sincera rozzezza una cifra stilistica da accompagnare alla sua pungente ironia.
GIPI E QUELLE MISTERIOSE LETTERE DI UN MITOMANE APPASSIONATO DI FUMETTI
Il Ragazzo Più Felice del Mondo parte da un elemento di verità su cui Pacinotti vorrebbe costruire un documentario: la lettera dai toni entusiastici che agli inizi della sua carriera ricevette da un giovane ammiratore, un quindicenne che confessava con una grafia precisa ma infantile e un linguaggio ossequioso di trovare in Gipi il suo fumettista preferito. Nella busta il ragazzo allegava un cartoncino e un francobollo, chiedendo al suo idolo di fargli dono di «un suo schizzetto (magari con una piccola dedica)». La missiva sarebbe potuta restare un trascurabile episodio di quelli capaci di compiacere l’ego di un autore, se non fosse per la scoperta fatta per caso da Pacinotti che quel sedicente quindicenne ha inviato per due decenni (e senza mai cambiare età) copie pressoché pedisseque della stessa richiesta a oltre cinquanta fumettisti italiani, con le stesse identiche parole, le stesse lusinghe e le stesse richieste a ognuno. Chi si nasconde dietro quell’identità fittizia? Quale storia? Un film è il medium ideale per provare a raccontarla.
UNA RIFLESSIONE SUL BISOGNO DI RACCONTARE, RICCA DI SKETCH
Se la vicenda è in sé incredibilmente interessante, e ha tutti gli ingredienti di un giallo da risolvere, è in realtà proprio sulla curiosità solleticata da un tale mistero che il regista vuole soffermarsi; sul perché dopo tanti anni ancora si ricordasse di quella missiva, su come delle lodi sperticate possano aggirare il fragile narcisismo di un artista, e su cosa possa spingere un uomo apparentemente rispettabile (un veterinario, si viene a scoprire) a spacciarsi per un teen ager per così tanto tempo. Se però il film all’inizio – dopo un’esilarante parentesi fittizia sui pregressi tentativi cinematografici di Gipi – sembra voler documentare il percorso a ritroso per ritrovare quell’adulatore manipolatorio e mitomane, è con il fiorire delle ipotesi sulla sua identità che la pellicola si trasforma in qualcos’altro, assumendo la cifra metacinematografica e surreale propria dell’autore.
Con i dialoghi che ricordano gli scambi surreali del suo primo film, l’autoreferenzialità che riporta al suo secondo titolo e la struttura a sketch che ricorda da vicino gli apprezzatissimi corti che propone nella cornice dello show di LA7 Propaganda Live, Il Ragazzo Più Felice del Mondo finisce per essere una riflessione tutt’altro che superficiale sul bisogno di raccontare e su quanto questo abbia a che fare più con il narratore che con la storia stessa. Una riflessione che arriva coraggiosamente a sfidare lo spettatore e il suo ‘diritto’ alla conoscenza, e che nel farlo propone una serie di siparietti esilaranti – assolutamente memorabili quello sul pitch a Procacci di La Vita di Adelo, quello che coinvolge Jasmine Trinca e Kasia Smutniak in un tentativo di raggiungere il pubblico generalista e quello sull’incontro con un picchiatore che è diventato un travestito dopo aver scoperto che stava semplicemente reprimendo la sua parte femminile.
Gian Alfonso Pacinotti, che qui divide lo schermo con Gero Arnone e Davide Barbafiera, si dimostra tanto disinteressato alla confezione formalista (per mantenendo il raffinato gusto compositivo già espresso sulla tavola) quanto generoso nello snocciolare idee, episodi e suggestioni, in un viaggio cinematografico con qualche rallentamento sul finale ma che consigliamo a chiunque di intraprendere. Perché se in questo geniale e confusionario pastiche di documentario, mockumentary e finzione Gipi finirà per interrogarsi sulla propria natura di regista, autore e protagonista, noi non potremo fare a meno di interrogarci sul nostro ruolo di spettatori.