Quando al Roma Fiction Fest ho rivelato a Little Steven Van Zandt (Lilyhammer, I Soprano) che in Italia gli Showrunner non esistono era incredulo. Perché il mondo lo sa da anni ormai: se al cinema è il regista a governare, in televisione comandano gli sceneggiatori. O meglio una tipologia specifica di sceneggiatori che hanno dimestichezza con i budget e con tutti i meccanismi della macchina produttiva. Questo perché chi ha pensato una serie e ci si è rotto la testa per mesi, ha fatto ricerca, ha dato vita ai personaggi, ha già ipotizzato le location in fase di scrittura, insomma ha creato un universo narrativo, è ovviamente la persona più adatta per dare coerenza artistica ad un progetto produttivo che per forza di cose rischia uno scollamento nel lungo processo di realizzazione.
In Italia gli sceneggiatori, diciamocelo, sono sempre stati un po’ bistrattati.
E forse è il momento che si riapproprino del ruolo apicale che meritano. Perché senza l’idea, senza la scrittura, non esiste niente: nessuno viene assunto e niente viene girato. Preparatevi perché oggi non parleremo delle grandi serie americane, inglesi, scandinave responsabili di occhiaie e lunghe notti di binge-watching. Parleremo di casa nostra. Non storcete il naso e vedetela come una medicina amara, nella speranza che si possa guarire.
La televisione italiana non ha dato prova di grande competitività sul mercato globale. Tanti prodotti di punta generalisti li abbiamo comprati dagli spagnoli: Un medico in famiglia (Médico de familia), I Cesaroni (Los Serranos) e Braccialetti Rossi (Polseres vermelles), solo per citarne alcuni. Non è una cosa di cui vergognarsi, lo fanno anche gli americani (Homeland, The Bridge, House of Cards), ma in mezzo ad un mare di prodotti originali.
Davvero non siamo capaci di scrivere una serie per conto nostro?
O il problema è aver paura di sbagliare perché se la serie non va bene una testa rotolerà? Il nostro è un mercato piccolo, ma di questo passo non cresceremo mai. Quest’anno la RAI ha provato con Non Uccidere a rivisitare le atmosfere di The Killing, un grande successo scandinavo che ha avuto un celebre e riuscito remake americano. Non Uccidere ha avuto ascolti bassi ed aveva i suoi limiti, oltre ad essere stata affossata da un posizionamento infelice. Ma viva dio! Qualcuno ha provato a fare qualcosa di diverso! Ci voleva più coraggio, direbbe qualcuno. Sono tutti capistruttura RAI con la poltrona degli altri, direi io. Direttore Campo Dall’Orto non ti scoraggiare, è ricerca e sviluppo necessaria, non avete buttato i soldi.
Tutti abbiamo amato le serie tv Sky Romanzo Criminale e Gomorra, ma non dimentichiamo che sono andate in onda su una pay tv satellitare. E Sky produce una serie all’anno. Sempre legata ad un successo editoriale, televisivo (In Treatment) e/o cinematografico. Finché non ha prodotto 1992. Qualcosa di nuovo, anche in questo caso un prodotto non perfetto, ma originale, con un suo stile! E comunque il miglior prodotto televisivo italiano del 2015. Esportato in 60 paesi. Ha fatto un milione di telespettatori, non molto meno di Gomorra.
Questa necessaria premessa per arrivare al fatto che il 7 marzo alla Casa del Cinema di Roma si è tenuto un incontro organizzato da Dino Audino Editore e Writers Guild Italia, il sindacato degli scrittori di cinema, tv e web. L’occasione era la presentazione dell’edizione italiana di Showrunner – grandi storie, grandi serie di Neil Landau. Relatori erano gli sceneggiatori Stefano Sardo (1992, In Treatment, Il Ragazzo Invisibile), Claudio Corbucci (Non Uccidere, La Squadra, Carabinieri) e Ivan Cotroneo (Una mamma imperfetta, Tutti pazzi per amore, La kryptonite nella borsa) e il vicedirettore di RAI Fiction Francesco Nardella.
La svolta, per gli sceneggiatori italiani, potrebbe essere dietro l’angolo.
Se amate le serie tv e sotto la scorza di italico cinismo, ma proprio sotto, volete credere che le cose possano cambiare, ricordatevi questa data perché potrebbe essere significativa, un punto di arrivo e di partenza. Che anche l’Italia potrebbe avere i suoi Showrunner si è accennato al panel sulla serialità organizzato da Fabrique du
Cinema all’ultimo Roma Web Fest e in numerose altre occasioni. Finché in questo incontro si è formalizzato qualcosa, perché quello che mancava alle idee piuttosto chiare degli sceneggiatori era l’approvazione dei produttori che temono di perdere alcune delle loro prerogative quando invece non trarrebbero che vantaggi (e ricchezza) da questo proce
sso.
L’approvazione in questo caso è venuta da chi ai produttori dà lavoro, il vicedirettore di RAI Fiction Francesco Nardella, che all’incontro alla Casa del Cinema esordisce dicendo che in Italia lo Showrunner ce l’abbiamo da vent’anni ed è nato con Un posto al sole, dove Fabio Sabbioni era il Produttore Creativo (termine che Nardella preferisce ancora oggi a Showrunner) che ha garantito la continuità dello show. Ora lasciate stare i commenti acidi sul prodotto, è una soap e la lunghissima serialità è indispensabile ad un’industria sana perché è la palestra naturale per tutti i reparti, dagli elettricisti, agli sceneggiatori, ai registi (Gabriele Muccino e Stefano Sollima hanno diretto almeno un episodio). Agli sceneggiatori in sala non piace quando dice che “lo showrunner può venire dalla regia e non necessariamente dalla scrittura”, ma Nardella vuole raccontare la storia di un processo. Parla del passo successivo, La Squadra, dove il regista Gianpaolo Tescari ricopriva il ruolo. In questo contesto lo sceneggiatore Claudio Corbucci selezionava gli altri sceneggiatori. E quando è arrivato a Non Uccidere era pronto a fare il Produttore Creativo proprio grazie al know how maturato ne La Squadra. Un bagaglio di conoscenze difficile se non impossibile acquisire a scuola perché lo Showrunner ha l’ultima parola su tutti gli aspetti artistici del prodotto: la scelta degli attori, lo stile della serie, la luce, il suono, il montaggio (ha il final cut). Corbucci conferma: è stato coinvolto con piena autonomia decisionale su praticamente ogni aspetto della produzione, proprio come uno Showrunner internazionale, il primo a farlo davvero in Italia. “Nella lunga serialità” dice “ogni giorno vanno prese molte decisioni. Uno scrittore che abbia le competenze – non tutti possono farlo – è la figura più giusta per ricoprire questo ruolo perché conosce la serie meglio di chiunque altro, l’ha creata e ponderata e se qualcosa deve cambiare per un’esigenza produttiva chi meglio dell’autore sa dove intervenire?”. (prosegue dopo la foto)
Quando si parla di un prodotto internazionale è più difficile, perché bisogna avere autorevolezza per trattare e relazionarsi con veri e propri giganti. Nardella lo sa per esperienza, perché nell’ultimo anno ha seguito la produzione della mini-serie Medici: masters of Florence prodotta da Lux Vide, scritta da Frank Spotnitz (The Man in the High Castle, X-Files) e Nicholas Meyer (Star Trek II, La Macchia Umana) e diretta dallo storico aiuto regista di Steven Spielberg, Sergio Mimica-Gezzan (I Pilastri della Terra, Battlestar Galactica).
Stefano Sardo è stato la rock star della serata, forse perché da tanti anni è anche il frontman di una band, i Mambassa. Permettetemi una breve digressione: molta stampa, soprattutto underground, ha criticato Il ragazzo invisibile, scritto da lui, Ludovica Rampoldi e Alessandro Fabbri e diretto da Gabriele Salvatores, ma forse dimentichiamo un dettaglio fondamentale: un film supereroistico italiano non era mai stato fatto prima. E il prodotto non è stato venduto al pubblico per quello che era, un film per ragazzi, non Avengers. Con le sue imperfezioni, un buon film per ragazzi. Forse è stato un passaggio necessario per arrivare al seppur diverso, acclamato e riuscitissimo Lo chiamavano Jeeg Robot, che comunque il bravo regista Gabriele Mainetti si è dovuto produrre da solo perché sulla carta quasi nessuno ha voluto credere nel progetto e nell’ottima sceneggiatura di Nicola Guaglianone e Menotti. Fine della digressione. Torniamo a Sardo. Dopo l’adattamento italiano di In Treatment, lui, Fabbri e la Rampoldi hanno avuto l’opportunità di creare “qualcosa che avesse il passo di una serie contemporanea. La libertà di scrivere un concept con personaggi di invenzione” che non fossero i personaggi storici di Mani Pulite, o almeno non solo. “Una serie alla Mad Men – senza paragonare i Beatles ai Monkees! – multistrand con antieroi con un loro conflitto”: 1992. Si sono proposti per avere un ruolo attivo nello sviluppo oltre la scrittura, il produttore ha cercato di dissuaderli, ma tutto il lavoro di ricerca li rendeva di fatto i produttori creativi più papabili. Il ruolo è cresciuto una bozza di contratto dopo l’altra. E alla fine sono riusciti ad essere presenti in quasi tutte le decisioni, non riuscendo però ad essere dei veri Showrunner come Claudio Corbucci perché non potevano gestire il budget né avere il final cut. Sardo il know how lo ha acquisito lavorando a La Nuova Squadra. A seguito della scomparsa di Pietro Taricone ha maturato il pragmatismo necessario a riscrivere venti episodi in un mese e mezzo a stretto contatto con la produzione. “Il punto è che se non fai mai provare qualcuno a fare lo Showrunner non saprai mai se è in grado oppure no. Non serve avere cinquant’anni. Lena Dunham nel 2012 aveva ventisei anni quando ha fatto la showrunner per Girls”. Chissà se dopo l’esperienza di 1992 gliela daranno questa possibilità.
Sardo si rivolge al pubblico, ma parla a Nardella: “I modelli narrativi sono troppo conformati gli uni agli altri, la RAI potrebbe continuare a differenziare i pubblici, anche se capisco che per la sua natura è difficile. Ma devi prenderti dei rischi. Si fanno anche scelte sbagliate, non è una scienza esatta. Noi per esempio abbiamo scommesso su Giuseppe Gagliardi, un regista che non aveva mai fatto una serie. Ma poi ha fatto anche Non uccidere. Agli americani importa solo il mercato e loro hanno capito che economicamente è più intelligente mettere le chiavi in mano agli scrittori. […] È una scelta che ad un certo punto il nostro mercato dovrà fare. È una questione di quando, non di se.” E poi ha detto una grande verità: “L’originalitá va tutelata. E quando qualcosa è originale ha meno consenso e tutelarla è più difficile.”
Ivan Cotroneo invece ci è andato con i piedi di piombo. Non troppo entusiasmo, non troppo endorsement allo strumento oggetto del dibattito. Se in Tutti pazzi per amore, oltre la scrittura, aveva un ruolo sul set non contrattualizzato, la prima vera esperienza da showrunner ce l’ha avuta per Una mamma imperfetta che ha anche diretto nella prima stagione, passando la regia a Stefano Chiantini per la seconda, ma mantenendo lo showrunning. Nel caso di Una grande famiglia “con Rosario Rinaldo” di Cross Production “è nato un regime di collaborazione dove avevo la possibilità di poter dire la mia su cast, sugli ambienti e sul montaggio. Si è stabilito un rapporto di fiducia.” Rapporto che si è riconfermato nell’imminente Sirene, che Cotroneo definisce un “fantasy sentimentale”. Se ammette che lo Showrunner garantisce compattezza e vantaggio al prodotto, ritiene però che non sempre sia lo scrittore la persona giusta a ricoprire il ruolo (e qui fa eco a Nardella), “per esempio Sorrentino o Ozpetek potrebbero essere Showrunner di se stessi”.
Concludendo Corbucci ricorda che fino a qualche anno fa ci si dimenticava dello scrittore quando questo consegnava le sceneggiature. Oggi invece è sempre più chiaro come lo sceneggiatore debba essere coinvolto nella lavorazione. Perché come dice Sardo “scrivere una serie non è come scrivere un racconto, ma un universo dove si muove il racconto”, un universo che bisogna conoscere bene per adattarlo ai bisogni imprevedibili di una produzione che si sviluppa magari su molte stagioni. E un colpo di coda Sardo lo dà sulla questione diritti: Hagai Levi segue Be’Tipul (In Treatment) in ogni passo che lo ha portato fuori da Israele e per ogni adattamento guadagna giustamente del denaro. Non così per l’Italia, dove le vendite all’estero non garantiscono ritorni economici agli autori. Assurdo no? “Allora” si chiede Sardo “cosa dovrebbe spingere uno sceneggiatore a scrivere un prodotto che possa essere competitivo per il mercato globale?” Il problema è che in Italia una vera industria dell’audiovisivo (ancora) non c’è.