Figlio dell’Ivan Reitman che ci ha regalato Ghostbusters, Jason Reitman si è in realtà affrancato dall’ingombrante etichetta di figlio d’arte con una carriera che – tra alti e bassi – ha visto succedersi grandi successi di critica e di pubblico come Juno, Tra Le Nuvole e Thank You For Smoking. Il regista statunitense si appresta ora tornare nelle sale italiane dal 21 febbraio 2019 su distribuzione Warner Bros con The Front Runner – Il Vizio del Potere, presentato al 36. Torino Film Festival come film di apertura nella sezione Festa Mobile.
GARY HART E LO SCANDALO DEL FRONT RUNNER PER LE ELEZIONI DEL 1988
The Front Runner propone sul grande schermo la storia vera di Gary Hart, candidato dei democratici grande favorito per la corsa alla Casa Bianca nel 1988, che vide crollare improvvisamente il consenso pressoché plebiscitario di cui godeva a causa di una storia di adulterio sbattuta in prima pagina. Bastarono solo tre settimane a compromettere per sempre la carriera di Hart e a regalare la presidenza a George W. Bush, ed è proprio nel corso di quelle tre settimane, cadenzate una dopo l’altra, che Reitman ripercorre la catabasi di Hart ritraendo come suo solito lo stretto legame che ci lega alla moltitudine di persone ed eventi che ci circondano.
HUGH JACKMAN: UN PROTAGONISTA SOLIDO PER UNA STORIA DAL SAPORE VINTAGE
È Hugh Jackman a prestare il volto al politico statunitense, e al suo fianco troviamo Vera Farmiga nei panni della moglie e J.K. Simmons in quelli del direttore della campagna elettorale: tre nomi non sempre sfruttati al meglio (Simmons compare appena) ma che bastano da soli a garantire un altissimo livello artistico al film, quantomeno per ciò che concerne il comparto attoriale. A consolidare il contributo degli interpreti ci pensa la guida sicura del regista che, coadiuvato dal sapiente lavoro del cast tecnico, si impegna con tutto se stesso per riportare sullo schermo l’atmosfera e l’immagine delle pellicole degli anni ’80 – in particolar modo del padre, tanto da includere il vecchio logo Paramount preso da Stripes – Un Plotone di Svitati nei titoli di testa.
Alla ricostruzione estetica di un sapore vintage, che passa tanto da costumi, acconciature e scenografie quanto da un attento lavoro di trattamento della pellicola super35 in post-produzione, non corrisponde però un linguaggio filmico datato. Con un preponderante e volutamente scomposto uso della camera a mano, la scelta di far impallare spesso l’inquadratura e un montaggio serrato, Jason Reitman rende magnificamente tutta la concitazione di una campagna elettorale e del suo fallimento.
UNO SCRIPT BANALE NON SALVA UNA STORIA POCO INTERESSANTE
Se non sono la componente tecnica né tantomeno quella delle interpretazioni a deludere, lo stesso però non si può dire di quello che probabilmente è il più importante di tutti gli elementi: la sceneggiatura. Lo script risulterebbe formalmente scritto a sei mani dal regista insieme a Matt Bai e Jay Carson, ma se consideriamo che Bai non è uno sceneggiatore ma un cronista politico autore di un libro sulla vicenda e che Carson ha al massimo un passato da consulente tecnico per House of Cards, è evidente come la responsabilità della storia ricada interamente sulle spalle di Reitman.
È proprio qui che il film fallisce, perché nel ritrarre una vicenda ormai decisamente banale e già in partenza non troppo interessante (un politico ‘moralizzatore’ che rinuncia alla propria ambizione dopo che viene resa pubblica la sua infedeltà) non sceglie un vero punto di vista né un taglio predominante, e si limita a un approccio cerchiobottista che snocciola con troppa malcelata furbizia tematiche che potrebbero piacere all’Academy e al #metoo: c’è il tema del rapporto tra politica e stampa, la tematica della posizione di squilibrio tra un uomo potente e una giovane amante, la questione di come il circo mediatico impatti sui delicati equilibri familiari, quella dell’idealismo e infine un tiepido parallelismo con l’attualità politica – e non solo politica. Tutti ingredienti che vengono venduti come per stimolare un’importante riflessione, ma che in realtà si attestano su una deludente superficialità e non contribuiscono con alcuna originalità al dibattito. Anzi, finiscono addirittura per risultare superflui e noiosetti.
Tutto ciò fa di The Front Runner l’ennesimo film che ripete concetti triti e ritriti sul sistema americano e che, nel farlo, regala un paio d’ore ben confezionate ma che dimenticheremo appena messo il piede fuori dalla sala. Un lavoro ben recitato e girato, certo, ma altrettanto anonimo. Da Reitman sarebbe stato lecito aspettarsi di meglio.