Ideata dal giovanissimo collettivo di sceneggiatori GRAMS, Baby è la seconda serie di finzione italiana prodotta da Netflix (dopo Suburra). Ispirate ad un increscioso fatto di cronaca di alcuni anni fa, le sei puntate dirette da Andrea De Sica somigliano sinistramente alla poetica di Federico Moccia, vituperato scrittore e regista che nello scorso decennio ha segnato, in positivo e negativo, il cinema adolescenziale nostrano. Fra ricchi annoiati, bulli liceali, famiglie disfunzionali e incomprensioni tra genitori e figli, Baby paga una monodimensionalità insopportabile.
Chiara (Benedetta Porcaroli) e Ludovica (Alice Pagani, apprezzata in Loro di Sorrentino) sono due studentesse dell’istituto Collodi, un rigido e costoso liceo pariolino che impone l’uso della divisa ai suoi allievi. La prima vive con i genitori separati in casa, mentre la seconda deve sopportare una madre (intepretata da Isabella Ferrari) ormai succube di un compagno più giovane che si approfitta di lei. Il terzo protagonista della serie è Damiano Younes (Riccardo Mandolini), un giovane ribelle che a seguito della morte della madre si trasferisce da Quarticciolo ai Parioli, quartiere dove vive il padre, un ambasciatore arabo, dal quale il giovane è stato trascurato per tutta la vita. Le vite dei tre protagonisti si intrecciano nell’ambiente della criminalità della “Roma bene”, tra spaccio e prostituzione.
BABY: UN NUOVO “MOCCIANESIMO”
Chi è nato negli anni ’90 si è sicuramente trovato, almeno una volta, a inveire o a difendere Federico Moccia. Il metro che si usa con lui è lo stesso che si è usato con i fratelli Vanzina e con i film di Natale: per quanto i loro prodotti possano essere detestati, va riconosciuto a questi autori di avere uno stile ed un universo ben riconoscibile. Amore 14, Scusa ma ti chiamo amore, Tre metri sopra il cielo e tutti gli altri avevano in comune una storia d’amore molto semplice: ragazza della Roma bene che frequenta un istituto iper-rigido che si innamora di un ragazzo agli antipodi.
Che il “ribelle” sia interpretato da Riccardo Mandolini (come in Baby) o da Riccardo Scamarcio (“Step” in Tre metri sopra il cielo) cambia poco. Nella serie di Andrea De Sica si ripresentano in fila tutti gli stereotipi di Moccia: i ricchi sono cattivi e insopportabili, i genitori non comprendono i figli, i ragazzi ribelli che girano in giacca di pelle sono invece irresistibili. Le famiglie, le case e i pasti in famiglia sono tutti uguali in Baby. Dai tempi di Moccia non è cambiato nulla.
L’unico personaggio che sembra distaccarsi dal mucchio è quello di Fedeli, interpretato da Brando Pacitto, omosessuale e figlio del preside dell’istituto. La sua trama sembra prendere una piega interessante e quasi “pericolosa”, per poi concludersi nel penoso dialogo col padre che avviene nell’ultima puntata.
MANCA L’ELEMENTO DEL PERICOLO
Il “moccianesimo” che affligge Baby, tuttavia, non si limita soltanto alla caratterizzazione dei personaggi. Come nelle opere del regista di Universitari, in Baby è completamente assente l’idea di pericolo. Con questo intendiamo la sensazione che lo spettatore deve provare quando entra in empatia coi personaggi. D’altronde, nella serie Netflix si parla di prostituzione minorile, spaccio, giro illegale di denaro e rapporti con criminali teoricamente spietati (per quanto un “pappone” interpretato dal gioviale Paolo Calabresi possa incutere timore).
Tralasciando le crepe delle sceneggiatura (in particolare le improbabili coincidenze che portano Chiara a prostituirsi e l’assurda questione del denaro per la retta scolastica di Ludovica), Baby è una serie di crimini edulcorati, che non propone alcun ragionamento o discorso legato ai gravi fenomeni che racconta. Non si ha mai la sensazione che i protagonisti stiano per essere scoperti o che qualcosa possa accadere a loro. Nella serie Netflix i genitori non si insospettiscono di fronte ad una figlia che in due giorni porta 12 mila euro a casa o davanti ad una ragazza di quindici anni che esce ogni sera e sta fuori tutta la notte. È troppo facile e pigro giustificare questi errori con la semplice “disfunzionalità” della famiglia.
Baby paga la pigrizia (o forse la mancanza di tempo in fase di produzione) della sceneggiatura e la povertà di idee del concept in generale. Manca un discorso centrale convincente, laddove sarebbe bastata anche una semplice condanna del fenomeno della prostituzione giovanile. Inoltre, seppur nessuno si aspettasse un prodotto simile a Giovane e Bella di François Ozon, la mancanza totale del sesso nella serie è quasi ridicola. Viene trattato ancora come un tabù: se ne parla, succede, dovrebbe essere al centro della trama eppure non si vede.
Nonostante gravi difetti, però, Baby (di cui certamente vedremo una seconda stagione) ha due importanti pregi. Per prima cosa, finalmente i “social” vengono usati con cognizione di causa. I protagonisti comunicano attraverso essi e soprattutto si imparano a conoscere sbirciando i profili altrui (come fa Chiara all’inizio col profilo instagram di Damiano). Una cosa normale, che accade tutti i giorni e che finalmente non viene vista come il “male assoluto” ma con un semplice fenomeno dei tempi.
Il secondo pregio, in conclusione, ha a che fare con le lungimiranti strategie di Netflix. A pochi mesi dall’uscita di un prodotto pressochè identico in lingua spagnola, Elite (con molti protagonisti della serie La casa di carta), il colosso di streaming propone Baby in Italia. In entrambi i casi ci sono i giovani, tutti attori belli e di appeal per i teenagers, “star” in erba che sono pronte per essere definitivamente lanciate. Il pubblico degli adolescenti è quello che in Italia nessuno si riesce a prendere con consistenza, dal momento che i prodotti Rai o Sky fanno molta fatica a catturare le loro attenzioni. Elite e Baby (pubblicizzato non a caso con un pezzo dei Maneskin) rappresentano i primi passi verso quell’obbiettivo, il pubblico giovane che non ha più un Federico Moccia o un Twilight in cui ritrovarsi.