Forse non è un caso che Ethan Hawke, per il suo quarto lungometraggio da regista, abbia voluto raccontare proprio la storia di un dimenticato musicista country nato nella sua stessa città del Texas. C’è più un indizio che ci porta a credere che il suo Blaze, presentato in Festa Mobile all’ultimo Torino Film Festival, sia in realtà un biopic che gioca di riflesso con il proprio modo di intendere il cinema, l’arte e la vita. Dopo l’esordio sperimentale di Chelsea Walls, il distacco delicato de L’amore giovane e l’intenso documentario Seymour: An Introduction Hawke continua a guardare dentro alla macchina da presa con uno sguardo disobbediente e nomade, “senza fissa dimora”.
Una vita, tre solchi narrativi
Un po’ insomma come la musica di Blaze Foley (Ben Dickey), al secolo Michael David Fuller, semi-sconosciuto cantautore country nato ad Austin nel 1949 e morto a nemmeno a quarant’anni quando nel 1989 fu ucciso a colpi di pistola poche ore dopo il suo ultimo concerto. Ethan Hawke ne segue le vicende di vita con un racconto non lineare, disarticolando il biopic in tre grandi solchi narrativi. Il primo passa dagli aneddoti di Townes Van Zandt (Charlie Sexton), intervistato durante una trasmissione radiofonica (il conduttore, ripreso di spalle è proprio Ethan Hawke); il secondo, più intimo e sentimentale, incrocia le memorie della moglie Sybil Rosen (Alia Shawkat), autrice del libro Living in the Woods in a Tree: Remembering Blaze Foley (da cui il film è tratto); il terzo è una cronaca della notte nella quale Blaze è stato assassinato, che comprime il racconto prima durante e dopo l’ultimo concerto del cantautore country. Insomma Hawke sceglie non di raccontare ma di vagabondare nella vita di Foley e lo fa in piena consapevolezza della indole fugace ed evanescente del personaggio con un’operazione più simile a quella di Todd Haynes su Bob Dylan (Io non sono qui) piuttosto che a quella dei fratelli Coen su Dave Van Ronk (A proposito di Davis).
La simbiosi tra musica e vita
Se è impossibile dunque mettere a fuoco Foley, Hawke procede per frammenti cercando di scomporli e ricomporli, utilizzando diversi registri, da quello documentaristico a quello di fiction, e diversi colori, da quelli più ironici a quelli più drammatici. Questo mosaico impressionista di ritratti ed episodi è attraversato e rimasticato dalle canzoni del cantautore country: vita e musica sono costrette a viaggiare insieme sulle strade degli Stati del Sud, in una simbiosi costante e inesorabile. Dopotutto il lirismo e la poetica dei pezzi di Blaze hanno qualcosa di terreno, corporeo, immanente alle stesse vicende del personaggio, come se lo slancio estetico dell’arte debba irrimediabilmente fare i conti con la durezza di un’esistenza ai margini di un’America desolata e desolante. Ma quello di Hawke non è un tentativo di denuncia sociale o di compassione verso gli ultimi: il malessere di Foley è insanabile quanto fisiologico e l’unica via di fuga sta nell’esorcizzare l’angoscia, le proprie colpe e quelle degli altri attraverso la country music. Come in una scena, la più riuscita e toccante, in cui Foley, insieme alla sorella, fa visita ad un ricovero per anziani e suona una canzone di fronte al padre, un tempo genitore violento e dispotico e ora costretto su un letto di ospedale. Anche il perdono per Foley passa dalla propria chitarra e della propria voce: nel suo Country non c’è mai rabbia o frustrazione, ma una trasfigurazione delle proprie disavventure e delle proprie sfortune che restituisce al pubblico come piccole e grandi lezioni di vita.
Il country di Foley e il cinema di Hawke
In tutto questo è bravissimo nella sua ingombranza Ben Dickey (esordio premiato al Sundance), aderente e totalizzante perfino nelle performance di Foley sul palco (dopotutto Dickey stesso è un cantante country) mentre l’estetica di Hawke sembra girovagare volutamente senza punti di riferimento predefiniti. Se, soprattutto nei dialoghi, c’è una sospensione narrativa che ricorda un certo cinema di Richard Linklater (che fra l’altro appare in un cameo insieme a Sam Rockwell), quello di Hawke si concretizza, soprattutto in questo film, come un cinema della non-appartenenza piuttosto che dell’adesione, della ricerca continua piuttosto che della certezza, della cattura delle atmosfere piuttosto che dei significati. Come fece il suo concittadino Foley nei confronti della musica country più popolare e istituzionale, anche lo sguardo autoriale di Hawke sembra volersi distaccare da schemi riconoscibili, riservandosi un personale e intimissimo punto di osservazione sul ruolo che riveste l’arte nella propria vita.
Se dunque da una parte Blaze è un omaggio a una personalità dimenticata della musica Country, per Hawke è forse e soprattutto un omaggio a un cinema delicato, vagabondo e genuino, un richiamo alla necessità di una pausa dai modelli e dalle mode. Un cinema per certi versi felice di essere sospeso e incompiuto ma allo stesso tempo incapace di essere conclusivo e inconcludente.