A un anno da quando Netflix ha proposto allo showrunner di Black Mirror di realizzare un film interattivo con le stesse tecnologie che stava sperimentando nei contenuti per bambini, arriva Black Mirror: Bandersnatch, lungometraggio dalla durata variabile che sottopone lo spettatore a scelte binarie permettendogli di decidere a più riprese che direzione debba prendere la storia.
UN ‘EPISODIO’ NOIOSO, IL PEGGIORE DI SEMPRE PER BLACK MIRROR. EPPURE…
La storia di base ha a che fare con un ragazzo orfano di madre che, nel 1984, decide di adattare un romanzo a scelta multipla facendone un videogioco rivoluzionario, ma andando inevitabilmente incontro a dei finali sempre negativi. Il titolo nasconde una doppia citazione: quella dell’omonima creatura immaginata da Lewis Carroll in Attraverso lo Specchio (che appare anche nel film durante una visione lisergica) e quella del videogame (o meglio mega-game) dallo stesso titolo, progetto incredibilmente ambizioso che – nella realtà – nel 1984 portò al fallimento la Imagine Software. Sono anche molti altri i rimandi e gli easter egg presenti nella pellicola (il più insistito dei quali è a Metalhead, episodio della IV stagione dello show Netflix che ha in comune con Bandersnatch il regista David Slade), tanto che a volte sembrano piazzati lì per colmare in una prospettiva orizzontale la pochezza del copione.
La storia, o meglio, le storie di Bandersnartch sono state difficili da intersecare (gli sceneggiatori si sono dovuti aiutare con il software Branch Manager) ma sono tutt’altro che appassionanti, e il percorso dello script è sorprendentemente privo di spunti, tanto da farne probabilmente il peggior episodio di Black Mirror di sempre, almeno da un punto di vista di scrittura drammaturgica. Se però la serie di Charlie Brooker ci ha insegnato qualcosa, è ad alzare le nostre barriere di difesa verso gli aspetti più inquietanti delle nuove tecnologie, e da questo punto di vista, pur rivelandosi stavolta un’esperienza noiosa e piuttosto frustrante, Black Mirror si prende gioco dello spettatore in perfetta coerenza con la propria identità storica.
SE CREDETE CHE BANDERSNATCH VI DIA LA POSSIBILITÀ DI SCEGLIERE, NON NE AVETE CAPITO IL SENSO
Sin dall’inizio di questo coraggioso ma non riuscitissimo esperimento è evidente quanto alcune scelte siano irrilevanti: che si tratti di quali cereali mangiare, quale musica ascoltare o quale tic assecondare, spesso si tratta – non a caso – di scelte ridondanti che quasi si prendono gioco di un pubblico evidentemente affamato di interazione e novità. È solo col progredire della trama che l’impianto binario degli sbocchi narrativi inizia a influenzare in modo più netto la storia, eppure il più delle volte la scelta non permette di capire chiaramente in quale direzione andranno gli eventi, trasformando così le opzioni in una sorta di un test alla cieca che è ‘interattivo’ ma molto poco legato alla volontà reale dello spettatore. Il più delle volte, chi si trova davanti allo schermo non è chiamato a fare una scelta, ma a ‘tirare una monetina’, e quando compie quella che sembra una scelta più influente c’è buona probabilità che la linea narrativa venga resettata e si debba tornare indietro nel percorso.
La stessa trama di Bandersnatch a un certo punto si sposta su un piano metanarrativo inerente l’illusorietà della scelta e del libero arbitro, portando a quello che è il momento probabilmente più interessante di tutto il film: la possibilità di rivelarsi al protagonista spiegandogli che si trova in un episodio interattivo su Netflix. Un momento assolutamente brillante, ma che ha più il sapore di un furbo ammiccamento che l’impatto degli amarissimi colpi di scena cui ci ha abituati Brooker. Per il resto tutto va avanti senza particolari sussulti, se non fosse per l’esilarante parentesi kung-fu che si attiva rispondendo «sì, cazzo» alla richiesta di più azione: un momento di grande ironia che chiarisce come Brooker sia ben consapevole della natura piuttosto noiosa del suo ultimo lavoro.
I CEREALI SONO LA SCELTA PIÙ IMPORTANTE DI TUTTE, MA LA VERA MERCE SIETE VOI
Nel calderone di Black Mirror: Bandersnatch finisce in ordine sparso un po’ di tutto, dai videogiochi ai libri-gioco, dalle suggestioni carrolliane alla teoria dell’interpretazione a molti mondi della realtà (nota ai più come ‘degli universi paralleli’); com’è possibile però che uno show geniale, che ci ha abituati ai più alti livelli di scrittura visti sul piccolo schermo, decida di proporre la storia piuttosto irrilevante di un programmatore che ha una crisi esistenziale? Il motivo è semplice, e lo script prova a ricordarcelo quando con quella straordinaria mise en abîme introduce il logo di Netflix tra le opzioni: mai come questa volta la serie originariamente nata su Channel 4 diventa uno specchio che ci restituisce la nostra immagine, mentre noi non la guardiamo perché troppo impegnati a scegliere che cereali deve mangiare un personaggio poco interessante.
Quei cereali, così apparentemente insignificanti, sono forse l’elemento più importante del lungometraggio. Scegliere i Frosties o gli Sugar Puffs apparentemente non ha alcun impatto sulla storia, se non condizionare quale rimando apparirà distrattamente su uno schermo durante la narrazione. Eppure, quella scelta così innocua, non a caso è la prima: rappresenta più di ogni altra ciò che rende questo esperimento di film a scelta multipla non un’eccentrica trovata d’intrattenimento, ma una gigantesca innovazione di marketing, che dando l’illusione della libertà ci imprigiona. È chiaro che il problema non è Bandersnatch in sé, ma l’introduzione di una nuova forma di intrattenimento cui prelude, che è in realtà un sondaggio mascherato da film. Le storie a scelta multipla sono sempre esistite, è vero, ma nell’era dei big data assumono un ruolo e un significato diverso.
ALLA FINE È SUCCESSO: CON BANDERSNATCH LA DISTOPIA DIVENTA REALE
Non è una novità che il vero oro della net economy siano i big data, e cioè quell’insieme di informazioni cumulate nate dalla somma e dal confronto di una moltitudine di ‘profili statistici digitali’ (dalle nostre abitudini alle nostre preferenze, passando per i dati demografici). Come sanno bene Google e Facebook, i big data vogliono dire potere, e Netflix sin da prima della sua trasformazione in piattaforma di streaming ha fatto tesoro della miniera di informazioni in proprio possesso. Dal lontano debutto di House of Cards, primo show originale di Netflix ordinato su ‘commissione’ dei big data, la mole di dati in possesso del web service è aumentata a dismisura: Netflix sa chi siamo, da dove ci colleghiamo, quali dispositivi possediamo, che tipo di carta di credito usiamo, qual è il nostro client di posta, cosa ci piace guardare e in quale orario, quali serie divoriamo una puntata dopo l’altra e quali ci gustiamo un po’ per volta, cosa aggiungiamo ai nostri preferiti, cosa scegliamo di votare e come, e anche quali sono le abitudini di consumo delle persone cui concediamo di usare gli altri profili del nostro account (tra le altre cose). Netflix sa già tutto di ognuno di noi, eppure è solo l’inizio.
Ora immaginate quale straordinaria mole di informazioni possa derivare da uno show a scelta multipla, siano esse psicologiche o commerciali. È come se Netflix ci sottoponesse a un test psicologico per profilare ognuno di noi con grandissima precisione, verificando se siamo sadici o speranzosi, quale tipo di musica (e quindi di emozioni) preferiamo in relazione a una determinata storia, come reagiamo sotto stress, come rispondiamo a determinate domande che mirano a suscitare una precisa reazione, qual è il nostro senso dell’ironia, ma anche semplicemente di quali attori vorremmo vedere di più e di quali siamo disposti a liberarci in fretta, o anche quale genere preferiremmo ibridare con la storia principale. Permettiamo a Netflix di trasformarci in cavie da laboratorio, e tutto ciò serve solo per far fare più soldi al gigante dello streaming. Niente di nuovo, verrebbe da dire, ma in realtà a tale riguardo c’è un vuoto normativo notevole, perché la legislazione vigente (anche il tanto vituperato GDPR) non prevede la specificità in questione. E inoltre, considerato l’uso che si potrebbe fare in futuro dello strumento, cambia profondamente la natura qualitativa dei dati raccolti. L’importante è esserne consapevoli.
Se le scelte multiple di Bandersnatch non ci permettono di capire in che direzione stiamo portando la storia, dicono comunque moltissimo di noi, e una conoscenza approfondita di ciò che vogliamo vedere permette a Netflix di soddisfarci con sempre maggiore efficacia, ma anche di trasformarci in un insieme di target di mercato iperprofilati, introducendoci a una nuova era di product placement personalizzato, nel quale la pubblicità che vedremo su un televisore in scena sarà proprio quella dei nostri cereali preferiti. Un problema del genere potrebbe riguardare molti videogiochi, certo, ma almeno per il momento nel settore del gaming la mole di dati potenzialmente estraibile dal singolo giocatore – il più delle volte – è troppo ingente per essere gestita. Per un film a scelta multipla, che peraltro di suo è un’esperienza decisamente più passiva, vale l’esatto opposto. Ecco fatto: la scelta dei cereali è in fin dei conti la più rappresentativa.
Black Mirror: Bandersnatch a modo suo è quindi l’episodio di Black Mirror più importante di sempre, quello che sfrutta una tecnologia con cui Charlie Brooker ha già detto di non voler più avere a che fare, e che con la sua stessa natura ci dimostra quanto a nulla sia servito metterci per anni in guardia contro i pericoli delle nuove tecnologie. Privandoci di una storia gratificante lo showrunner sembra quasi volerci ricordare che un film dev’essere un’altra cosa; una storia che ci viene raccontata e non una che raccontiamo a noi stessi.
Ci si prospetta un futuro in cui ci ritroveremo davanti prodotti audiovisivi personalizzati ma che non ci offrono sfide, fatti (ancora più) a misura della nostra comfort zone. Ci si prospetta un futuro in cui il product placement sarà sempre più flessibile, subdolo e pervasivo, ai limiti della persuasione occulta. Ci si prospetta un futuro in cui saremo disposti a sottoporci a dei test psicologici senza alcun anonimato, senza nemmeno sapere quale uso verrà fatto delle informazioni che ne deriveranno. Quel futuro è vicinissimo, è praticamente presente. In tempi non sospetti Black Mirror aveva già provato ad avvisarci, ma questo potrebbe essere l’ultimo allarme utile. Lo ascolti o scegli di ignorarlo?