Provocatorio, morboso, estremo, pretenzioso, confuso. Sono solo alcune delle stroncature – quasi unanimi – che Touch Me Not della regista rumena Adina Pintilie ha ricevuto quando al Festival di Berlino si è sorprendentemente portato a casa l’Orso d’Oro come miglior film nella competizione ufficiale (oltre che il premio alla migliore opera prima). In molti se lo sono chiesto: siamo nei dintorni dell’abbaglio e del bluff o ci troviamo di fronte ad un capolavoro incompreso?
Tre storie, tre corpi e tre menti
Di una cosa si è certi: Touch Me Not, presentato in questi giorni al Fish&Chips Film Festival di Torino, ha avuto una genesi ambiziosa. Per sette anni la Pintilie ha lavorato al progetto, rimescolando alcune idee originarie ed adattandole alla ricerca disperata di tre attori disposti a mettersi completamente a nudo sul set. Alla fine l’autrice li ha scovati nelle persone di Laura Benson, Tómas Lemarquis (già sulle scene di X-Men – Apocalisse e di Blade Runner 2049) e Christian Bayerlein. Tre attori e tre corpi per tre storie che si intrecciano veicolando in modi diversi lo stesso tema della consapevolezza della propria intimità e della propria sessualità. Laura (la Benson) ha dei grandi problemi a farsi anche soltanto sfiorare dalle persone e vive i rapporti sessuali con nausea e distacco. Tudor (Lemarquis) vive con un certo imbarazzo la propria calvizia che lo rende vulnerabile e incapace di giocare con i suoi desideri. Christian (Bayerlein) è un ragazzo con gravissime disabilità fisiche che però non ha nessun problema a vivere intensamente le proprie fantasie sessuali con la sua fidanzata di vecchia data. Sono tre sfumature diverse del rapporto nell’uomo fra corpo e desiderio: mentre Laura e Tudor non riescono a superare le proprie inibizioni, Christian – con il corpo deformato e disfunzionale – mette davanti a tutto la propria tensione erotica.
Touch Me Not: oltre il docu-drama
Attraversando queste vicende umane la Pintilie cerca di sperimentare un nuovo linguaggio del racconto cinematografico a metà tra fiction e documentario e intervallando la narrazione con dei frammenti in cui intervista e interroga i protagonisti. Dopotutto gli attori non recitano davvero: le tensioni dei loro personaggi e le loro debolezze sono le stesse delle loro personalissime biografie (Tudor/Lemarquis all’età di tredici anni ha realmente perso i capelli, ciglia e sopracciglia a causa dell’alopecia areata universale). Insomma non siamo nemmeno più di fronte all’ibrido del docudrama, ma a qualcosa di più azzardato e speculativo, in cui la Pintilie inserisce anche il suo ruolo stesso di regista e di sguardo cinematografico scoprendo spesso la quarta parete e mostrando di tanto in tanto tutti gli artifizi del set. Non solo: essa stessa compare più volte nella messa in scena, invadendo lo spazio diegetico e dialogando con i suoi attori, come se la macchina da presa fungesse esclusivamente come specchio per indagare e (far) riflettere e non come semplice macchina del racconto. Quel che ci troviamo davanti è una sorta di terapia attraverso il filtro del cinema, un esperimento a metà fra la sociologia da laboratorio e il documentario più invasivo e penetrante.
Una corporeità eccedente ed eccessiva
Ma il problema di fondo dell’opera della Pintilie non è nemmeno questa estraniazione dal cinema con il cinema: quell’intento sembra suggerire che tutta la nostra vita, le percezioni di noi stessi e degli altri e perfino la nostra idea di bellezza e di libertà sessuale è una costante e continua negoziazione tra realtà e finzione. Siamo esposti alle nostre paure e i nostri tabù, allo stesso modo come gli attori di Touch Me Not sono esposti allo sguardo della macchina da presa. Ciò che invece non funziona è il tentativo di vivisezionare le menti e le psicologie dei suoi attori utilizzando una corporeità eccedente ed eccessiva che alla fine tende a distrarre più che a provocare. L’intero discorso filmico della Pintilie si arena proprio non tanto nel voler sfondare la quarta parete del cinema ma nell’incapacità di sfondare quella fra mente e corpo, fra sostanza e forma, fra anima e materia. L’anestetizzante e algida fotografia da ambiente sanitario, gli inserti al confine con la videoarte e perfino la cacofonia estenuante della colonna sonora sono sovrastrutture che non aggiungono valore alla ricerca socio-cinematografica della Pintilie, ma ne riducono fortemente la portata. Se da una parte questo tentativo di materializzare una sorta di “prigione delle emozioni” restituisce alla lunga un distacco non necessario e senza una svolta significativa, le parti più interessanti del film sono invece quando procedere su binari più convenzionali, nei dialoghi e nei confronti meno forzati, nella spontaneità documentaristica con cui gli attori interagiscono e rispondono alle domande sulla loro intimità.
Dunque di Touch Me Not (che uscirà nelle sale italiane il prossimo 22 febbraio per I Wonder Pictures) si può salvare solo il grande lavoro sugli attori e l’intuizione (mal riuscita) di ridisegnare una nuova funzione al cinema documentaristico. Ma nel suo complesso rimane un’operazione fallita, perché incapace di riconsegnare allo spettatore quelle stesse emotività che mette in primo in piano attraverso i suoi protagonisti. Il fatto che sia stato pluripremiato all’ultima Berlinale non aiuta affatto a farcelo digerire meglio, anzi: ce lo rende un lavoro ancora più vanitoso e pretenzioso di quello che forse è realmente.