Pose, l’ultima scintillante produzione di Ryan Murphy (showrunner che ci ha già dato grandi soddisfazioni in passato con Glee, Scream Queens e American Crime Story), fa finalmente il suo esordio in Italia grazie a Netflix. Disponibile sulla piattaforma streaming dal 31 gennaio, la serie FX apprezzata dalla critica americana mette in scena la New York spumeggiante e trasgressiva degli anni Ottanta.
L’ASCESA DELLA BALL CULTURE NELLA GRANDE MELA
New York City, 1987. Il mondo malizioso e audace della ball culture è ormai una realtà nella comunità LGBT+ afroamericana e latina. In un quartiere poco raccomandabile della Grande Mela diversi gruppi si sfidano a colpi di voguing, tra musica, tacchi alti e abiti provocanti, guidati da un emcee dalla parlantina brillante all’interno di una ballroom. I gruppi in questione si chiamano Houses, con una struttura gerarchica che ricalca quella familiare. Non esiste una House senza una madre, il punto di riferimento per le figlie e i figli che ne fanno parte. C’è di più: il nome di ogni House fornisce status e cognome ad ognuno dei componenti.
SOTTO AL TRUCCO, UN MONDO ESTREMAMENTE COMPLESSO
Basta guardare qualche minuto dell’episodio pilota per capire che il racconto di Murphy (e dei coautori Brad Falchuk e Steven Canals) va ben al di là dello chiffon e delle ciglia finte concentrandosi sull’identità, sulla ricerca del proprio posto nel mondo, sul diritto di ognuno di perseguire sogni autentici senza doverli ricalibrare in base a ciò che il mondo offre. Tuttavia, nella New York di fine anni Ottanta, essere omosessuale, transessuale o anche solo un giovane senza una famiglia alle spalle non regala prospettive per il futuro.
Elektra Abundance (una straordinaria Dominique Jackson), “madre” della prestigiosa House of Abundance, non è altro che una regina dispotica e capricciosa il cui unico scopo è – almeno in apparenza – quello di vincere le competizioni dei ball. Eccentrica e maestosa, è la donna che in passato ha fornito una famiglia a Blanca (interpretata da MJ Rodriguez). Solo che Blanca risulta positiva al test dell’HIV: lei mantiene il segreto e lascia la House of Abundance per fondare la House of Evangelista. Ciò che desidera, ora che sente il ticchettio del tempo implacabile sulla sua vita, è dare il proprio contributo per salvare dalla strada qualcuno che, come lei, è stato rifiutato non solo dalla società ma dalla propria famiglia; trasformarsi da figlia a madre e tentare di sopperire a quella profonda mancanza d’amore che solo chi è stato rifiutato dai propri genitori può comprendere.
Questo mondo di ultimi è popolato da Ricky e Lil Papi, due ragazzi soli senza casa né prospettive, Angel (interpretata da Indya Moore), una prostituta trans che si innamora di un cliente della middle class dell’epoca, e Damon (un bravissimo Ryan Jamaal Swain), un giovane ballerino gay che viene preso a cinghiate dal padre e a schiaffi dalla madre prima di essere cacciato di casa a suon di “pentiti, peccatore, o Dio ti punirà con l’Aids”. Ad essere accolti nella House of Evangelista sono gli ultimi, i reietti del Bronx che indossano orecchini a cerchio. La straordinaria missione di Blanca si intreccia con la dolcezza e la simpatia del suo amico-stilista Pray Tell, l’emcee che ad ogni ball chiama le categorie e stuzzica gli sfidanti in quelle che sembrano telecronache dall’improvvisazione magistrale.
Accanto alle competizioni dei ball la vita scorre, difficile e spietata: c’è chi non conosce l’HIV – vera e propria piaga silenziosa di quegli anni – e chi invece tenta di sfuggire alle analisi del sangue terrorizzato da quel demone, da un’epidemia che gran parte del mondo all’epoca non vedeva come un morbo da curare ma come una punizione divina. C’è il tentativo, disperato, di spiegare ad una madre di non essere un figlio bensì una figlia. Ci sono i sacrifici e le rinunce – talvolta immense – da fare affinché il corpo possa somigliare alla propria personalità. C’è la discriminazione delle donne trans, raccontate come l’ultima ruota del carro ovvero persone che alla fine degli anni Ottanta erano allontanate e additate persino dalla comunità omosessuale. C’è lo smarrimento di un uomo sposato che si scopre attratto da una ragazza trans e il dramma di una donna che non può lasciare il proprio compagno perché, da sola, non sarebbe autosufficiente.
Alcune scelte, alcune storie, non sono del tutto originali. Nel corso della serie incrociamo qualche flashback didascalico e non c’è una sola scena di danza che non abbiamo già visto da Flashdance in poi. Tuttavia va bene così. Va benissimo così perché, per entrare a piccoli passi in un mondo così poco raccontato come quello della transessualità, non c’è bisogno di mostrare chissà quali situazioni eccentriche (per quello ci sono i ball). Ciò che Ryan Murphy e soci ci mostrano in Pose è che una madre è tale solo se si prende cura di un figlio e che una combinazione di cromosomi da sola non è sufficiente a fare di una persona un uomo o una donna.
In poche parole, Murphy ha fatto un ottimo lavoro: Pose è magnetica e provocante. La scelta di scritturare attrici trans per interpretare i ruoli delle donne transessuali può sembrare scontata ma non lo è poi così tanto (ricordate Scarlett Johansson e la proposta – poi rifiutata – di interpretare Dante Tex Gill?). I dialoghi (soprattutto le battute di Pray Tell e di Elektra Abundance) sono estremamente brillanti; i personaggi sono complessi e il cast è magnifico, dato che ogni attore e ogni attrice dimostra una straordinaria padronanza del linguaggio del corpo capace di farsi strabordante nei ball e preciso, delicato e intenso nei gesti piccoli e intimi della quotidianità. Una fisicità che esce dallo schermo e arriva fino a noi: vi sfidiamo a rimanere impassibili quando dalle casse uscirà I Wanna Dance With Somebody.