Il cinema civile è vivo e, almeno stando all’ultimo lavoro di Guillaume Senez, gode di ottima salute. Arriva in sala dall’8 febbraio con Parthénos Le Nostre Battaglie (titolo originale Nos Batailles), già presentato alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2018 e poi vincitore del Premio del Pubblico e del Premio Cipputi al 36. Torino Film Festival – dove il regista belga portò con successo anche il suo primo lungometraggio Keeper. Anche alla prova dell’opera seconda, il cui carico di aspettative è sempre molto elevato con il conseguente aumento dei rischi, Senez conferma talento registico, personalità nel condurre lo spettatore solo ed esclusivamente nei suoi territori, autorevolezza nella direzione degli attori e grande padronanza nel dominare un progetto che, seppur carico di storie e sfumature che toccano le corde della sensibilità, non scivola mai su toni retorici o peggio ancora patetici.
Olivier è un capo reparto che svolge anche attività sindacale. L’azienda dove è occupato è un’immensa struttura dove luoghi, spazi, ritmi e organizzazione del lavoro rimandano all’attività di Amazon. L’uomo è un punto di riferimento per i colleghi, verso i quali si batte strenuamente cercando di appoggiarli e di risolvergli piccoli e grandi problemi. Ma gli spazi sempre più sottili del sindacato che fatica a svolgere un ruolo efficace in un mondo del lavoro in rapida trasformazione rendono sempre più difficili le mediazioni con l’azienda. Stretto in questa morsa Oliver delega totalmente la gestione della famiglia e dei due figli alla moglie Laura, la quale un giorno, devastata dalla depressione, scappa di casa e fa perdere le sue tracce. L’uomo s trova così costretto ad occuparsi anche dei due bambini di cui, scoprirà, non conoscere nulla e con i quali compirà un doloroso percorso di crescita in cui saranno coinvolte anche la madre e la sorella che gli daranno una mano e che, mutate le condizioni, avranno la possibilità di riflettere anche sui loro rapporti e sulla loro famiglia di origine.
Come si vede, sebbene sia messa in scena una situazione sociale e familiare complicata, la trama è molto semplice e asciutta. Il merito di Senez è di aver decodificato i sui personaggi e la sua storia affinché niente e nessuno debordasse neanche un attimo e scivolasse sulla facile emotività melensa da sbattere in faccia al pubblico. Parte del merito va anche agli attori e alla loro recitazione. Romain Duris, Laure Calamy, Laetitia Dosch, Lucie Debay, Basile Grunberger, Lena Girard Voss, Dominique Valadié danno credibilità ai loro personaggi ai quali ognuno dà un grande equilibrio; lo stesso equilibrio che, cosa ancora più importante, si riscontra anche nel gruppo grazie al lavoro straordinario del regista belga che sembra aver mosso i fili per evitare stonature nelle relazioni dei suoi personaggi e tutto fosse calibrato e misurato alla “scala dei colori” che aveva dipinto per loro.
La chiave di lettura del film è quella della sottrazione: del lavoro, dei diritti, di quote di autonomia fino a quella del coniuge e, ancora peggio, della figura materna. L’assenza non viene mai condannata ma, al contrario, compresa. I vuoti non sono lasciati galleggiare nelle storie collettive o personali ma, al contrario, sono l’occasione, per quanto drammatica, di riempirli contando prima di tutto su se stessi. Olivier sarà duramente provato dalla vicenda ma non sarà schiacciato perché capisce che per prendersi cura degli altri prima di tutto dovrà prendersi cura di se stesso e continuare a dare ossigeno alla propria dignità. Le nostre battaglie si inserisce a pieno titolo nel filone cinematografico dei Dardenne anche se, va detto, il modo con il quale la telecamera dei due registi e sceneggiatori belgi segue i loro personaggi resta ancora un “marchio di fabbrica” riconoscibile. In compenso la scena finale allestita da Guillaume Senez varrebbe quasi da sola il prezzo del biglietto.