Il tropo del loop temporale è stato usato innumerevoli volte nella narrativa cinematografica e non solo, e se la sua iterazione più famosa è probabilmente quella del cult Ricomincio da Capo (1993), un altro esempio particolarmente rilevante ne è il fanta-action Edge of Tomorrow – Senza Domani (2014). È pescando un po’ da entrambe queste celebri storie che Netflix propone ora la sua nuova serie Russian Doll, che attinge alle atmosfere stralunate del classico di Harold Ramis e che però riprende dal blockbuster con Tom Cruise ed Emily Blunt il concetto di un loop temporale legato alla morte (che pur era presente nel film con Bill Murray, ma con dinamiche diverse).
RUSSIAN DOLL E LE MILLE MORTI DI UNA RAGAZZA NICHILISTA
Nadia Vulvokov (Natasha Lyonne) si guarda allo specchio, chiusa nel bagno di verde piastrellato dell’appartamento della sua amica Maxine. È il suo trentaseiesimo compleanno, e oltre una strana porta di design che emana una luce blu e con una maniglia a forma di rivoltella la aspetta una piccola folla di amici e conoscenti. Nell’aria ci sono le note della bellissima e beatlesiana Gotta Get Up di Harry Nilsson (che diventerà la melodia ricorrente della stupenda colonna sonora della serie). Nadia è allo sbando, e dietro la sua ironia corrosiva e il carattere esuberante nasconde il nichilismo di chi nonostante la giovane età non ha già più speranza e non ha mai avuto punti di riferimento nella vita. Quella vita Nadia la perderà di lì a poco, investita da un’automobile, ma quella stessa vita non sembrerà averne abbastanza di lei, dato che esalato l’ultimo respiro Nadia si ritroverà viva e vegeta indietro nel tempo e consapevole, davanti a quello specchio nel bagno della sua amica. Da lì la protagonista cercherà di districarsi in un perpetuo déjà vu, ma quel momento della sera del suo compleanno la aspetterà dopo ognuna delle infinite e imprevedibili morti cui la ragazza andrà suo malgrado incontro.
UNA STORIA COMPLESSA CHE TARDA A PARTIRE MA NON DELUDE
Russian Doll sembra cucito addosso alla sua protagonista, quella Natasha Lyonne che il pubblico ricollega immediatamente alla faccia della Nicky Nichols di Orange is the New Black, e tale sovrapposizione è tutt’altro che casuale, dato che è la stessa Lyonne ad aver concepito il soggetto dello show e ad averne scritto la sceneggiatura insieme a Amy Poehler (comica e autrice per quasi tre lustri del Saturday Night Live) e a Leslye Headland (che dirige anche la metà delle puntate).
La premessa della serie ha ovviamente a che fare con le seconde possibilità. Non è apparentemente originalissima e, complice il tema della reiterazione, inizialmente sembra destinata a diventare prevedibile e soporifera; tanto che lo spettatore potrebbe pure incautamente decidere di abbandonarla ai primissimi episodi – anche per via di un tono difficilmente definibile, inizialmente quasi da black comedy scialba. In realtà, nonostante un arco evolutivo il cui fulcro è sorprendentemente spostato in avanti, Russian Doll riesce a stupire per come riesca ad evolversi in una stagione di soli 8 episodi da circa 25 minuti l’uno, virando su toni più drammatici e intensi e rasentando addirittura un vago retrogusto di thriller/horror, ma senza mai perdere una certa scanzonatezza di fondo.
Quello della morte, che si presenta ineluttabile alla protagonista in momenti e modi diversi, è un tema tanto ricorrente nella narrazione da prestarsi spesso a letture ironiche se non comiche, eppure stupisce come, pur dopo averlo sminuito in ogni modo, le autrici riescano a restituirgli gravità, rendendo alcune delle dipartite più dolorose e traumatiche delle altre. Soprattutto, però, è degno di nota il ruolo allegorico della morte in quella che è destinata a diventare una storia di scatole cinesi ben più complicata di quanto non si potrebbe pensare inizialmente.
UN RACCONTO SIMBOLICO SULLA SOLITUDINE
Come sarà evidente quando la protagonista dovrà fare i conti con le conseguenze di un importante colpo di scena introdotto a metà percorso, la morte non è solo un escamotage degli autori per calare i personaggi in un continuo ripetersi delle stesse situazioni, ma è un modo creativo per affrontare il tema della stagnazione esistenziale che può cogliere chiunque alle soglie della mezza età. Tra le mille anime di Russian Doll vi è infatti anche quella di un atipico coming of age, nella misura in cui dei personaggi giunti ad un’età nella quale sarebbe normale decidere una direzione verso cui dirigersi si ritrovano invece intrappolati in un pantano di incertezze e sconfitte, che li porta inevitabilmente a fare i conti con il proprio presente e il proprio passato. Ma anche chi si sente a pezzi (o in inglese feels rotten, si sente marcio, per rifarci allo script) può nascondere ancora un’insospettabile forza vitale.
In tal senso la nuova serie Netflix, che per il suo format agile si ritrova a saltare rapidamente da una suggestione all’altra (non senza qualche forzatura quando arriva il momento di spiegare i contorni della mise en abîme), trova una dimensione inaspettatamente profonda e getta le basi per una riflessione tutt’altro che esaustiva ma affascinante sul tema della solitudine, ricorrendo addirittura a un’infarinatura di meccanica quantistica. Una dramedy fuori dagli schermi che – come suggerisce il titolo – nella struttura ricorda una matrioska, e che giova di una writers’ room tutta al femminile per ribaltare gli equilibri di genere, mettere una donna al centro della storia e proporre dei personaggi maschili in parti che normalmente sarebbero state affidate a donne.
Natasha Lyonne probabilmente non poteva trovare un debutto migliore in un ruolo da protagonista di una produzione importante (di cui peraltro dirige egregiamente un episodio), e non v’è dubbio alcuno che in quel di Los Gatos si daranno da fare per dare il prima possibile il via libera a una seconda stagione di Russian Doll. Anche perché siamo già davanti a una delle migliori serie del 2019.
P.S.: vi consigliamo di guardare direttamente la serie senza guardare il trailer ufficiale, dato che quelli di Netflix hanno avuto la bella pensata di metterci uno spoiler non da poco in mezzo.