Classe 1956, F. J. Ossang si è sempre mosso lungo un percorso artistico inquieto e vorace, dividendosi tra poesia, letteratura di finzione, musica e cinema. La sua quinta e più recente pellicola, 9 Doigts (9 Dita), nel 2017 è stata insignita del premio per la miglior regia al Festival di Locarno e il 18 febbraio arriva finalmente nelle nostre sale con Rodaggio Film e Reading Bloom, con un tour che vede il cineasta francese presenziare alle prime proiezioni in giro per lo stivale insieme all’attrice Elvire.
9 DOIGTS E UNA FUGA DALLA QUALE È IMPOSSIBILE SCAPPARE
Com’è lecito aspettarsi da Ossang, 9 Doigts non percorre strade convenzionali e si propone invece come un sogno febbricitante che ubbidisce solo all’immaginario del regista e sceneggiatore: sua l’opera, sue le regole. Il film si apre in medias res e trascina di forza lo spettatore in un mondo di cui non ha le coordinate: Magloire (Paul Hamy), di cui non sappiamo nulla, è visibilmente nervoso e si trova in una stazione in cui sta forse cercando di prendere un treno. Quando dei militari compaiono sulla banchina e si mettono a controllare i documenti dei presenti, il protagonista si defila di gran carriera fino a una spiaggia, nella quale si imbatte in un uomo morente che gli consegna una grande somma di denaro. Sarà proprio quel misterioso bottino che metterà sulla sua strada una banda criminale cui, per aver salva la vita, si ritroverà ad unirsi in un pericoloso furto di materiale radiattivo e ad imbarcarsi in un lungo viaggio su un cargo verso un’isola di rifiuti.
UN NOIR ARDITAMENTE STILIZZATO E AFFOLLATO DI CITAZIONI
Il suddetto inizio, pur non senza qualche problema di montaggio, chiarisce immediatamente la natura profondamente provocatoria del progetto: ci troviamo apparentemente dinnanzi a un film d’epoca, eppure la vibrante energia del girato non sfigurerebbe affatto in una moderna saga spy-action. È già da questi primi momenti che lo spettatore inizia a comprendere la peculiare amalgama alla base del progetto: la regia e la sceneggiatura non fanno nulla per rendere cristallino il succedersi degli eventi e, anzi, un certo senso di disorientamento è perseguito con costanza ma senza forzature.
I 99 minuti di metraggio, girati in bianco e nero su un 35mm di cui vediamo tutta la grana, sono un omaggio più che lapalissiano al grande cinema noir; un omaggio che a tratti si spinge addirittura indietro fino all’espressionismo. Le lunghe ombre dei personaggi che si stagliano nette sulle scenografie, i raggi di luce che tagliano i volti all’altezza dello sguardo, le ambientazioni fumose cariche d’atmosfera, la composizione della scena che sfocia a tratti nell’allestimento teatrale: tutti elementi sui quali si innesta con potenza la meravigliosa fotografia di Simon Roca, che al contempo osa con pellicole al negativo e inquadrature asimmetriche e ardite.
Ci sono poi, soprattutto, i costumi. Nonostante dettagli che chiariscono la contemporaneità del contesto, il reparto dei costumi si affida completamente all’insistita presenza di cappotti di panno, trench e pellicce da uomo; tutti giganteschi, lunghi e larghi, che riportano immediatamente alla mente i cliché del noir e al contempo contribuiscono a una stilizzazione estrema nel loro essere abbinati a occhiali da sole moderni, in un codice che somiglia molto allo stile del personaggio Ossang.
UN VISIONE DI CINEMA ESTREMA MA ELEGANTE
In 9 Doigts il tempo sembra impazzito: suggestioni cinefile e letterarie delle più disparate provenienze si ibridano con eleganza sperimentale – di quella che normalmente ci si può aspettare di trovare giusto nei festival – in un lavoro che rispecchia lo spirito punk del regista; se non nella forma, nella sostanza. Quello di Ossang è infatti un cinema allergico alle regole e ribelle verso le convenzioni, e così anche quel lunghissimo viaggio su un cargo ‘infestato’ dalla presenza di un carico radioattivo si rivela presto tanto il cuore del film quanto una forte metafora esistenziale; una parabola vampiresca in cui la privazione dell’altrui sanità – che sia fisica o morale – sembra l’unica certezza in un percorso verso l’ignoto, verso la trasformazione, verso l’assurdo.
L’estrema soggettività che soggiace a un cinema siffatto è probabilmente proprio ciò che cerca lo spettatore cinefilo, e pertanto rappresenta tanto una risorsa capace di stabilire un dialogo tra un regista orgogliosamente sui generis e un pubblico mediamente colto ma amante del genere, quanto un limite nella misura in cui un’autoreferenzialità compiaciuta si rivela respingente per l’amplia platea di interlocutori dei quali a Ossang non potrebbe importare di meno. Il regista ammicca più a se stesso che al pubblico, e anche se 9 Doigts non ambisce a grandi momenti d’emozione o ad anatemi culturali, nasce per polarizzare i giudizi e non c’è verso di restargli indifferenti. Non è questo uno dei principali pregi che cerchiamo nel cinema d’autore?