Copenaghen. Canali. Colori pastello. Casa con parquet. Una coppia di pittori innamorati ed eccentrici per i loro tempi. La vita che scorre di pari passo con l’arte, l’amore, le amicizie e il sesso. La ricerca del piacere, la voglia di stupire e scioccare la società perbenista e marmorea dell’epoca. Gli anni venti erano un periodo di grandi cambiamenti sociali.
Anni in cui la Belle Époque muoveva le sue leve di mutazione nella società europea.
In questo contesto vivono la ritrattista Gerda Wegener e il paesaggista Einar Wegener, muovendosi sinuosamente tra le feste, la vita quotidiana e la pittura; sarà proprio la realizzazione di un quadro la causa che scatenerà la ricerca di una nuova identità sessuale da parte di Einar, dando vita alla sua controparte femminile Lili Elbe. Nei panni di questo uomo sconvolto dalla necessità di trovare una nuova identità sessuale troviamo il premio Oscar Eddie Redmayne, che all’inizio della pellicola ammalia con la sua capacità interpretativa, trasportandoci nell’universo del suo personaggio, facendoci vivere le pulsioni di cambiamento che lo sconvolgono e lo sradicano dalle sue certezze. Accanto alla complessa figura di Einar/Lili si staglia una splendida e convincente Alicia Vikander nei panni di Gerda, attrice capace e in grado di dare forma e sostanza ad una donna a tratti fragile e a tratti capace di gesti d’amore estremi e potenti.
Con queste ottime premesse spetta al rodato Tom Hopper devastare la pellicola.
Il regista riesce a vanificare ogni sforzo fin qui fatto, rendendo il film ridondante, scontato e totalmente privo di qualsivoglia tensione o pathos. Con lo scorrere dei minuti l’unico sadico godimento resta il contare le volte che Redmayne ci delizierà con i suoi occhioni da cerbiatto, espressione che andrebbe accompagnata con la mai dimenticata “Who Killed Bambi” dei Sex Pistols, altro che le delicate musiche scritte dal sempre capace Alexandre Desplat.
Chiari e scontati i rimandi alla pellicola capolavoro di Sally Potter Orlando, ma Hopper non vale la mano destra della regista britannica e Redmayne se lo sogna la notte di esser capace quanto Tilda Swinton. The Danish Girl affonda nella stantia ricerca di una introvabile profondità, rendendo francamente insopportabile l’odissea dei suoi protagonisti, sottoponendo la spettatore ad una sequela di sequenze interminabili e avvincenti come una passeggiata con il cane in un pomeriggio piovoso d’inverno. “I’ve got the spirit, but lose the feeling.”