La Casa di Jack, distribuito da Videa il 28 febbraio 2019 e disponibile in streaming su Prime Video, è l’ennesima opera di Lars Von Trier che è impossibile non associare al concetto di scandalo; nuovo straordinario capitolo di un percorso artistico nel quale il regista danese si è deliberatamente e pervicacemente ritagliato il ruolo di artista ‘scomodo’.
IL SENSO PROFONDO DI LA CASA DI JACK
Quando al 64. Festival di Cannes, durante la conferenza stampa di presentazione di Melancholia, Von Trier si lasciò sfuggire un delirio di battute politicamente scorrettissimo a tema ebrei e nazismo, non solo andò incontro all’ostracismo (temporaneo) dalla kermesse di Frémaux e Lescure, ma si fece quella che probabilmente è la peggior nomea che un regista di talento abbia mai avuto.
Eppure lui, cresciuto senza regole da genitori di origini ebraiche e nato da un rapporto extraconiugale della madre con un tedesco, inizialmente credeva fosse evidente l’ironia di quelle parole, che erano accompagnate da un attacco tanto esilarante quanto spietato alla sua collega Susanna Bier («ero felicissimo di essere un ebreo, finché non ho conosciuto Susanna Bier». Quasi una gag di Woody Allen.).
Il rischio del sondare i labirinti dell’oscurità
Nel pronunciarle, però, Von Trier si rese evidentemente conto di quanto il tema fosse un tabù, e provando ad alternare lo scherzo («sono un nazista») a considerazioni più seriose sull’arte del grandissimo architetto Albert Speer (pur correo degli spregevoli orrori nazisti) e sulla possibilità di addentrarsi negli oscuri labirinti della mente di Hitler, finì per toccare un nervo scoperto della morale occidentale.
Alcuni personaggi e alcuni atti sono troppo efferati per essere compresi (il che non significa giustificarli), e vanno quindi semplicemente classificati come inumani, perché ogni tentativo di accostarsi alla devianza per individuarne le origini è considerato dall’opinione pubblica come una sorta di collaborazionismo. Ma se il cinema di Lars Von Trier ci ha insegnato qualcosa, è che nessun argomento è troppo scomodo per essere trattato.
L’inutile versione censurata di The House That Jack Built
È proprio in totale continuità con questa sfida alla morale che si colloca La Casa di Jack, titolo originale The House That Jack Built, perversa storia di un serial killer che uscì al cinema in Italia in due versioni, una doppiata e vietata ai minori di 18 anni nonostante sia pesantemente censurata (sconsigliatissima e priva di senso), e una – anch’essa VM18 – in inglese sottotitolato e senza tagli (l’unica che abbia senso vedere, e che non dovete perdervi). Ovviamente non si tratta di un film per stomaci deboli, ma è proprio in quella scioccante perversione che schiaffeggia lo spettatore il senso profondo della pellicola, e accostarsi a un rimaneggiamento che privi un’opera della sua essenza è quanto di più inutile vi possa essere.
LA TRAMA DI LA CASA DI JACK
Jack (Matt Dillon) è un uomo di mezza età e di bell’aspetto, un facoltoso ingegnere che però ha sempre desiderato essere un architetto; un individuo solitario affetto da un disturbo ossessivo compulsivo e maniaco della pulizia. Soprattutto, però, Jack è un omicida seriale con una perversa ossessione per l’arte.
La Casa di Jack seguirà l’evoluzione del lungo e impunito percorso da serial killer (oltre sessanta vittime) concentrandosi su una manciata di delitti che il protagonista racconterà fuoricampo a Verge (Bruno Ganz), una vera e propria incarnazione del Virgilio dantesco destinato ad accompagnarlo nella sua – metaforica e letterale – discesa verso l’Inferno. Non mancheranno dettagli macabri sulle torture fisiche e psicologiche inferte a vittime innocenti (compresi dei bambini), sulla malata ossessione di Mr Sophistication – questo il suo nome d’arte – per allestire composizioni con i cadaveri conservati in una cella frigorifera e sulla contorta concezione di bellezza del criminale. Soprattutto, però, sarà addirittura esplicitato il paragone tra Jack e il Von Trier regista, facendo di questo respingente capolavoro il film più personale e autoreferenziale della sua carriera.
LARS VON TRIER, IL LINGUAGGIO DEL REKOMBINANT E L’ARTE CHE SFIDA LA MORALE
Il «voto di castità» cinematografica del Dogme 95 non è mai stato così lontano, mentre gli echi della la trilogia delle depressione (Antichrist, Melancholia e Nympomaniac) ancora si sentono. Cionnonostante La Casa di Jack è il film di Lars Von Trier in cui il suo linguaggio si fa più ardito che mai nello spingersi verso il rekombinant e, con la sua mirabile costruzione circolare e il tema ricorrente del colore rosso, ricorre a illustrazioni tecniche, immagini di opere d’arte, spezzoni di documentari sui campi di concentramento, cartoni animati, frammenti di vecchi film del regista stesso e filmati di Glenn Gould al pianoforte per tessere una complicata tela di relazioni e concetti, che con la sua forza iconica mira a raggiungere lo spettatore che non riesca a districarsi tra le complesse citazioni intellettuali dell’opera.
Capolavori o icone? Dietro le immagini scandalo de La Casa di Jack
Se David Hume sosteneva che «la bellezza delle cose esiste nella mente di chi le contempla», Von Trier porta questo concetto alle estreme conseguenze, facendo dell’arte un fenomeno pericoloso che può manifestarsi in ogni evento umano – anche nei più terribili. Per il danese infatti ancor più dei capolavori contano «le icone», immagini capaci di sedimentarsi nell’immaginario collettivo e di riassumere nella loro essenza e potenza una moltitudine di significati e suggestioni – forse l’essenza dell’esperienza umana stessa.
Ma se possono essere iconici fotogrammi di un film, quadri o opere letterarie, lo possono essere anche le raccapriccianti scene dei campi di sterminio nazisti o il corpo martoriato di un bambino morto. Quella di Von Trier è una sfida rischiosissima e provocatoria alla morale, che però ha il grande merito di ricordarci quanto il concetto idealizzato di ‘umano’ sia fallace e come in realtà la bestialità e l’orrore siano elementi fondamentali della nostra natura. «Le vecchie cattedrali hanno spesso opere d’arte sublimi nascoste negli angoli più bui che solo Dio può vedere».
LA SEDUTA PSICANALITICA TRA JACK E VIRGILIO
Qualcuno potrebbe voler sostenere che Lars Von Trier voglia in qualche modo giustificare gli orrori nazisti, mettendosi sullo stesso piano dei grandi dittatori della storia, ma non c’è niente di più lontano dal vero. Con il suo linguaggio offensivo e perversamente ironico, l’autore di La Casa di Jack mira in realtà a rivendicare il diritto di esistere delle voci fuori dal coro, e si sdoppia riversando i suoi pensieri più confortanti e luminosi nella figura di Verge.
Il confronto tra il protagonista e il suo Virgilio, infatti, non è solo funzionale alla citazione dantesca, ma diventa una vera seduta psicanalitica in cui il regista si sdoppia, si confessa e si giudica. Le parole di Jack vengono dalla mente di Von Trier tanto quanto quelle di Verge, non dimentichiamolo.
LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO FINALE DE LA CASA DI JACK
Jack e Verge sono le sue anime di Von Trier che si combattono, e tale dualità è il vero binario su cui si muove tutta la storia. Le divisioni davanti alle quali viene messo lo spettatore sono continue: salvezza e dannazione, luce e ombra, prede e predatori. È solo con l’approssimarsi del finale che però diventa più esplicita la tassonomia con cui viene organizzato quel mondo; quando da quelle opposizioni inizia ad emergere una sintesi dialettica: «Io credo che il Paradiso e l’Inferno siano un’unica cosa: l’anima appartiene al Paradiso e il corpo all’Inferno. L’anima è la ragione e il corpo sono tutte le cose pericolose, per esempio l’arte e le icone.».
Una dipartizione che, alla luce di tutto il film, ricorda incredibilmente da vicino gli impulsi dai quali nacque la tragedia greca (e sui quali si fondava la filosofia nietzschiana): l’apollineo e il dionisiaco. Due spinte divergenti che si combattono ma sono ugualmente radicate nell’esperienza umana. E se la modernità tende a rimuovere quel dionisiaco che tanto è fondamentale nell’origine dell’Occidente, Von Trier se ne fa sacerdote e custode.
L’ALLEGORIA DELL’OMICIDIO COME IN AMERICAN PSYCHO
L’omicidio è il tabù più radicato nelle culture umane, un elemento quasi innatisticamente rifiutato che diventa il colore più intenso con cui l’autore riesce a ritrarre il complicato rapporto tra l’arte e la morale. Se infatti il nome di Jack potrebbe ai più pigri ricordare l’omonimo Squartatore che terrorizzò la Londra di fine ‘800, il precedente che – negli intenti – più somiglia alla natura del film è quello letterario di American Psycho: come nel romanzo di Bret Easton Ellis l’omicidio è un simbolo, un elemento evidente che denuncia una corruzione morale profonda (in modo analogo al valore che aveva la deformità fisica nel Riccardo III di Shakespeare).
Se però Patrick Bateman serviva a rappresentare la spersonalizzazione e la spietatezza nella cultura Yuppie degli anni ’80, Jack è un indice che volge il nostro sguardo tanto verso il cinema di Von Trier quanto verso un Occidente che non è ancora riuscito a processare ed elaborare la bestialità che nasconde dietro la facciata della civiltà. Evidentemente, per abbracciare la natura profonda dell’animo umano non dobbiamo temere di guardare nei suoi abissi.
LA CASA DI JACK, UN TESTAMENTO ARTISTICO DI LARS VON TRIER?
The House That Jack Built è una complessa e coraggiosa sfida allo spettatore, lanciata da chi al contempo non è minimamente interessato a ingraziarselo con alcuna lusinga di sorta. Il cinema di Lars Von Trier, con gli anni sempre più sofferto e intenso, arriva qui a una sorta di sublimazione al contrario. Come nel film un Jack insoddisfatto rade al suolo e ricostruisce con materiali sempre nuovi la propria casa, fino alla (buia) illuminazione finale, così Von Trier con i propri film ha provato differenti storie ed approcci fino ad arrivare alla totale oscurità che qui abbraccia. Quasi un testamento artistico, che potrebbe chiudere magnificamente una carriera come potrebbe aprire un’ipotetica trilogia dantesca.
Come suggerisce il film stesso, Von Trier si decide finalmente ad aprire la porta sull’inferno che probabilmente lo accompagna da sempre. Nel farlo tocca vette cinematografiche altissime e, tra un atto immondo e l’altro, non tradisce nemmeno il suo humor nero. La Casa di Jack è la storia di un serial killer, un’autobiografia allegorica e un omaggio alla Divina Commedia. Soprattutto, è un’opera di sfrenata ambizione che si colloca tra le più interessanti del cinema di questi anni.