Tom Hardy è uno di quei talenti autentici, un attore di quelli sempre perfettamente capaci di scegliere le parti giuste e di regalare anche al personaggio più defilato una profondità e una texture uniche. Tom Hardy è uno di quelli che non sbaglia un colpo? Così credevamo, ma l’improponibile Legend attualmente nelle sale ci dimostra che lo scivolone è sempre dietro l’angolo.
Brian Helgeland, dotatissimo sceneggiatore di L.A. Confidential e Mystic River, decide qui nella doppia veste di scrittore e regista di offrire una prova a dir poco imbarazzante e di trascinare con sé un Hardy che, sdoppiato nel ruolo di due gemelli criminali realmente esistiti, vale meno della somma delle proprie parti.
I fratelli Kray fecero il bello e il cattivo tempo nell’Est End londinese degli anni ’50 e ’60, ma il trattamento riservato a questa storia vera, già raccontata nel molto ben riuscito I Corvi (The Krays, 1990), ci fa rimpiangere il pur detestabile genere dei bio-pic, consegnandoci invece una tanto scanzonata quanto confusa agiografia di questi due amabili assassini mattacchioni, i cui crimini sono così romantici da meritare la cornice di una Londra da soap opera.
Se parte del comparto tecnico svolge egregiamente il proprio lavoro, in particolare in sala di montaggio e al commento musicale, abbiamo comunque costumi e scenografie che ci aspetteremmo da una fiction del martedì sera di RaiUno, mentre una scrittura sospesa tra consunti ‘giochi di prestigio’ narrativi e una profonda indecisione sui toni da adottare ci ricorda perché nella sua carriera Helgeland possa annoverare candidature non solo agli Oscar ma anche ai Razzie Award (con L’uomo del Giorno Dopo, 1997).
Al nostro amatissimo Hardy va riconosciuta la capacità di ritrarre due ruoli estremamente diversi, ma mentre il fascinoso Reggie è ammiccante e in perfetta sintonia con gli intenti da Harmony della pellicola, il fratello Ronald è il disastro totale. Tra movenze la cui goffaggine non è assistita da interventi di make-up o costumi lontanamente all’altezza, una parlata fastidiosamente finta e palesemente influenzata dalle protesi nella bocca e un’incertezza di fondo che trasforma uno schizofrenico paranoico in un ritardato, Hardy ci sorprende, stavolta in negativo. Un doppiaggio italiano disastroso non fa che peggiorare il naufragio. A contribuire all’intollerabilità della pellicola si aggiunge inoltre un’eccessivamente naïf Emily Browning, nei panni di una dolce cerbiatta che dev’esser rimasta ferma alla lobectomia praticata da Zack Snyder in Sucker Punch (2011).
Il film è stato un successo commerciale in Inghilterra, dove i Kray sono vere icone pop, ma nel resto del mondo verrà più ricordato per la sfacciata campagna pubblicitaria in cui la stroncatura data da Benjamin Lee sul Guardian (2 stelle) è stata spacciata per una recensione positiva grazie a una geniale quanto scorretta composizione grafica nella locandina. Per il resto niente da aggiungere. Un irrilevante susseguirsi di cattivi cliché.