“Amaranto, dal greco amarantos, latino amarantus (che non appassisce), è una pianta spontanea sacra agli Inca e agli Aztechi. Le piante inca amaranto kiwicha hanno invaso le piantagioni di soia transgenica di una delle più grandi multinazionali del mondo”. Iniziamo dalla fine. Dove, in una sorta di thriller alla rovescia, più che il nome dell’assassino allo spettatore viene svelato il senso del titolo, la pianta in grado di contrastare metaforicamente il più grande degli ‘omicidi’, quello del Pianeta: Amaranto.
Il percorso dove ci conducono le due registe Emanuela Moroni e Manuela Cannone si condensa in circa un’ora e venti minuti di pellicola ed è straordinario come in così relativamente poco tempo le due riescano a riversare efficacemente sul pubblico un lavoro durato tre anni, alla ricerca di frammenti di vita e di testimonianze sulla possibilità di un’organizzazione diversa da come conosciamo oggi il lavoro, le relazioni, l’economia, la famiglia e la gestione del territorio. Una ricerca che le ha condotte in aree geografiche differenti ma soprattutto dentro visioni culturali e perfino filosofiche distanti e inconsuete, dove si aprono orizzonti dimenticati o sconosciuti ma che qualcuno sta esplorando. Moroni e Cannone prendono per mano il pubblico e lo accompagnano in questo viaggio per certi versi ignoto. L’approccio è forse fin troppo documentale ma sempre delicato, non invadente né saccente.
In avvio Amaranto prospetta le emergenze del Pianeta attraverso alcuni esponenti dei movimenti mondiali a difesa della Terra: Serge Latouche, Helena Norbert-Hodge, Franco Arminio, John D. Liu, Starhawk, Pandora Thomas e Alberto Ruz Buenfil. Il percorso poi si snoda in cinque tappe. La prima, Venire al mondo, ci porta a Firenze dove l’ostetrica Verena Schmid promuove il parto naturale e la nascita fisiologica; quindi si va ad Amelia, in provincia di Terni, per il capitolo Dare forma al mondo, dove qui il maestro elementare Franco Lorenzoni ha fondato la casa laboratorio Cenci di cui espone metodi e attività educative. Si arriva quindi vicino Gubbio, sempre in Umbria, a Pratale, dove Mettere radici ci fa conoscere Etain Addey, scrittrice ed esponente del movimento bioregionale italiano. La quarta tappa Coabitare è invece sull’esperienza di cohousing realizzata a Ferrara, dove Alida Nepa espone un modo di vivere non privo di insidie e difficoltà ma estremamente interessante, e infine c’è Rinascere con la biologa Saviana Parodi, che ha adottato uno stile di vita che promuove e utilizza la circolarità della natura che si estende intorno alla sua casa.
Tecnicamente Amaranto, che è stato realizzato attraverso il crowfunding, il sostegno della Banca Etica e il coinvolgimento di una rete solidale, ha dei picchi di grande spettacolarità: indimenticabili i fotogrammi dal drone, specie nel finale dove le immagini del bosco e della terra con un gioco quasi caleidoscopico vengono prima riprese dall’alto, poi ‘piegate’ a favore di schermo, quasi come se lo spettatore si dovesse appropriare di così tanta bellezza appena vista dal cielo e custodirla. La poesia del burattino di Augusto Terenzi, le animazioni di Alessandro Antonelli e le illustrazioni di Marta Consoli sono di grande potenza e di sostegno ad una sceneggiatura per lo più coerente. Un’opera prima sicuramente da vedere, alla quale si perdona volentieri qualche passaggio e un approccio qua e là ancora acerbo.
Il cinema spesso è una frontiera avanzata che indaga su mondi conosciuti, talvolta anticipa quelli sconosciuti. Da questo punto di vista Amaranto è grande cinema e frontiera avanzata, come lo sono le storie che racconta.