Senna (2010), Amy (Premio Oscar nel 2016) e Maradona (2019) sono gli ultimi splendidi documentari di Asif Kapadia, regista londinese di chiari origini indiane. Questa opera sul “Pibe de Oro” è stata presentata al Festival di Cannes in anteprima mondiale e al Biografilm Festival di Bologna in anteprima italiana. Sulla personaggio Diego Armando Maradona, stranamente, sono usciti pochi film nella storia del cinema. Abbiamo il Maradona di Kusturica diretto dal regista Emir Kusturica, Armando a Maradona di Javier Martin Vazquez, l’ottimo Maradonopoli di Federici e, se vogliamo, il Santa Maradona di Marco Ponti, film che però non parla del campione argentino ma si rifà a lui soltanto nel titolo.
Quello fatto da Kapadia è però indubbiamente il migliore, poiché ciò che è riuscito a fare questo cineasta ha dell’incredibile: il regista inglese ha infatti dapprima compiuto un lavoro di ricerca senza eguali e poi ha ‘semplicemente’ montato il film, dato che Maradona è composto soltanto da immagini e video di repertorio, per lo più risalenti ai sette anni d’oro del campione argentino, quelli trascorsi al Napoli sotto la presidenza dell’ingegnere Corrado Ferlaino. Pur con i suoi limiti (dettati dalla fisiologica limitatezza delle immagini di repertorio), Maradona è letteralmente un gioiello.
MARADONA È IL RACCONTO DI UN UOMO CHE HA RISOLLEVATO UNA CITTÀ
Curzio Malaparte, ne La Pelle, diceva di Napoli: “Napoli non è una città: è un mondo. Non potete capire Napoli, non la capirete mai”. All’inizio di Maradona si vede una sequenza nella quale dei telegiornali stranieri raccontano il passaggio del Pibe de Oro dal Barcellona al Napoli enfatizzando sempre e solo un aspetto: “Napoli è la città più povera d’Europa e ha appena comprato il giocatore più costoso del mondo”. Subito dopo vediamo la presentazione ufficiale di Maradona al San Paolo. Essa si articola in due parti: una conferenza stampa caotica e disorganizzata, svoltasi in una specie di ex palestra che sembra un edificio occupato, seguita dall’ingresso di “Diego” sul terreno del San Paolo (lo stadio di Napoli). Ad aspettarlo ci sono 84.500 persone, forti di bandiere, trombe, striscioni e un amore che già da subito supera quello che dovrebbe essere un rapporto sano fra tifosi e giocatori.
Comincia male il campionato del “SSC Napoli”. La squadra perde e l’acquisto di Maradona sembra non essere sufficiente. Kapadia mostra allo spettatore cosa succede quando “gli azzurri” vanno a giocare nelle città del nord: vengono insultati ferocemente per tutti i 90 minuti della partita. La città è odiata dal resto d’Italia. Da qui il paradosso che viene raccontato nella prima parte di Maradona, ovvero che il giocatore più forte, amato, apprezzato e ammirato al mondo giocasse nella squadra più maltrattata d’Italia, nella città più povera d’Europa.
Ciò che Kapadia riesce a restituire con efficacia è il rapporto malsano che esisteva fra il capoluogo campano e il campione argentino. In tantissimi filmati di repertorio vediamo Diego uscire con centinaia, migliaia di persone attorno. Non può andare al cinema, al supermercato o nemmeno scendere in strada. Addirittura viene raccontato che un’infermiera di un ospedale di Napoli, dopo aver eseguito un prelievo a Maradona, ha conservato il sangue in una ampolla e lo ha depositato in una chiesa. In praticamente tutte le sequenze fuori dal campo di calcio Diego Armando Maradona non è mai solo. Attorno a lui ci sono donne, uomini, bambini, tifosi, guardie del corpo, giornalisti e paparazzi.
È una sudditanza malsana, quasi come se intorno a Maradona si fosse creata, senza la sua collaborazione, una setta dove lui era considerato come una figura messianica. Pochi anni dopo il suo arrivo cominciano ad apparire, in giro per Napoli, immagini di santi “contaminate” con murales, graffiti e disegni di Maradona. La narrazione di Kapadia è tutto fuorché imparziale e infatti non si può fare a meno di tifare per Napoli e per il campione argentino, un calciatore che dalla poverissima periferia argentina è arrivato a conquistare “Un Mondo”, parafrasando le parole di Malaparte.
IL LAVORO DI DOCUMENTAZIONE DI KAPADIA NON HA PRECEDENTI
Se per la prima parte di Maradona, quella nella quale vediamo immagini facilmente reperibili (perlopiù si tratta di materiale proveniente da telegiornali e di partite giocate) sembra che il lavoro di Kapadia sia stato di semplice “montaggio”, nella ultima ora del documentario è necessario ricredersi. Nel film infatti sono presenti tanti file audio inediti, come la telefonata originale di Maradona alla madre subito dopo aver vinto la coppa a “Messico ’86” (incredibile che il regista sia riuscito a recuperarla a più di trent’anni di distanza). Inoltre nella pellicola sono presenti filmati amatoriali in super8 girati a casa del Numero 10, nel quale vediamo Diego giocare coi propri figli o ballare con degli amici. Sono dei veri e propri cimeli, questi. Possiamo pertanto immaginare che Kapadia abbia visto letteralmente tutto quello che esiste su Diego Armando Maradona. Materiale analogico compreso, come tutti i sopracitati filmati in bassa risoluzione degli anni ’80. Raramente nella storia del cinema è stata fatta una così pregiata e impegnattiva sintesi di un’universo pressoché illimitato fatto di immagini, polaroid, copertine di giornale e video.
LA DROGA, LA FAMA E LE AMICIZIE ‘MAFIOSE’
Tra il 1986 e 87 Maradona ottiene tutto ciò che un calciatore può chiedere: porta una squadra che non aveva mai vinto un mondiale prima, l’Argentina, a vincerne uno ed è il principale autore del miracolo del Napoli campione d’Italia dell’87, il primo titolo simile della compagine partenopea. Come in ogni grande film di Scorsese, il momento di massimo splendore di un uomo coincide anche con l’inizio della sua fine.
Per Asif Kapadia il motivo della discesa tragica di Maradona si deve cercare nell’eccessivo amore che la città di Napoli nutriva per lui. Pensate che all’inizio degli anni ’90 La Repubblica ha effettuato un sondaggio dal quale è emerso che el Pibe de Oro era l’uomo più odiato di Italia, nonché capitano – non scordiamolo – della squadra più vituperata, insultata e non rispettata della nazione. Maradona comincia a finire nel vortice delle amicizie in odore di Camorra, della vita notturna sfrenata e della cocaina. In Maradona è proprio un audio originale del giocatore a dare una definizione della sua routine napoletana: “La domenica finiva la partita, andavo a mangiare coi miei compagni poi uscivo con loro per i locali. Mia moglie stava in casa a badare ai bambini. Io vivevo così fino al giovedì, poi mi “pulivo” per la partita della domenica successiva”.
Una vita sfrenata, una vicinanza (che nel film emerge come particolarmente controversa) con i membri di un clan camorristico, una passione inarrestabile per la cocaina e una metropoli che lo amava alla follia. Nel film sentiamo persino il presidente del Napoli ammettere di aver trattenuto con la forza il pibe nella squadra. Diego Armando Maradona viene dunque raccontato come prigioniero in una cella d’oro, all’interno della quale poteva fare e avere quello che voleva tranne vivere una vita tranquilla con la propria famiglia.
Maradona racconta, in conclusione, ‘solo’ con immagini di repertorio, la vita di un uomo che secondo il regista è stato un eroe tragico e divino. Kapadia si concentra sulla condizione tormentata del campione argentino, quella di un uomo che nella vita non è mai stato solo, che ha sempre avuto attorno persone che lo amavano,veneravano o desideravano qualcosa da lui (o tutte e tre insieme). Diego Armando Maradona ha sempre lottato contro e per qualcosa, non è mai stato tranquillo. È stato l’artefice di clamorose rivincite sociali come quelle dell’Argentina sull’Inghilterra e del Napoli sulla Juventus ed è oggi considerato il più grande calciatore della storia.
Eppure la sua vita è andata a rotoli e in questo gioiello del documentario contemporaneo Asif Kapadia cerca di darci le motivazioni del tracollo. In ultima analisi, un documentario straordinario su un personaggio straordinario. Disponibile su Netflix col titolo Diego Maradona.