Presentato in concorso alla 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, Ema di Pablo Larraín (Jackie, Neruda, Il Club) un film semplice sorprendente, distante anni luce dalle produzioni abituali dell’artista sudamericano. Il regista cileno cambia registro, lasciando da parte la sua “ossessione” per la storia del proprio paese per concentrarsi su un’opera che impiega al meglio di i tre “mezzi” fondamentali del cinema: il montaggio, le immagini e la musica.
Ema (Mariana di Girolamo) è una giovane ballerina di reggaeton impegnata nella compagnia di danza sperimentale diretta dal fidanzato, il coreografo Gàston (Gael Garcia Bernal), di 12 anni più grande. La coppia sta andando in frantumi per colpa di Polo, un bambino problematico di 7 anni che i due avevano adottato amandolo come fosse proprio ma che, dopo l’ennesimo gesto di ribellione violenta da parte del piccolo, hanno abbandonato riportandolo all’orfanotrofio. Ema e Gàston dovranno fare i conti con i sensi di colpa per il loro gesto e, mentre il rapporto di coppia andrà sgretolandosi, prenderà forma uno strano turbine di danza, sesso e vandalismo.
CON EMA LARRAÍN AMBIENTA PER LA PRIMA VOLTA UN FILM NEL CILE CONTEMPORANEO
Pablo Larraín è un beniamino dei festival e dei cinefili. I suoi film riescono a essere di grande intrattenimento e al contempo “didattici”, dal momento che tramite punti di vista sempre particolari il regista racconta le trasformazioni di un paese – il Cile – che nella seconda metà del ‘900 ha visto la morte di Salvator Allende e il regno criminale e dittatoriale di Pinochet; Post Mortem (2010), Tony Manero (2008) e No – i giorni dell’arcobaleno (2012), per esempio, scandiscono le tre diverse fasi del regno di Pinochet: la presa del potere, l’apogeo del dittatore e il crollo.
Ema è ambientato invece in una anonima Valparaiso, nella nostra epoca. La politica è fuori dal film, o meglio non è al centro della storia. Lo script accenna appena – tramite un dialogo – al problema delle adozioni in Cile, un paese nel quale i servizi sociali sono facilmente corruttibili. Di politica o di critica sociale, da lì in poi, non si parlerà più. È una delle tante “crepe” nel cinema perfetto e ordinato a cui questo regista ci aveva abituato. La sua ultima fatica è, come abbiamo detto, semplicemente diversa.
EMA È L’ESEMPIO DI QUELLO CHE DOVREBBE ESSERE IL MIGLIOR “CINEMA DA FESTIVAL”
Sgombrato il campo dalla responsabilità storica, Pablo Larraín sembra finalmente libero di sperimentare e “giocare” con tutti i mezzi a disposizione di un cineasta. A partire dalla colonna sonora – un energico mix reggaeton scritta dal compositore cileno Nicolas Jaar – Ema si presenta da subito come qualcosa di inusuale, di piacevolmente sorprendente.
Ema è infatti un film da Festival per eccellenza: originale, personale, esteticamente fantasioso e certamente divisivo. Larraín opta per un impianto narrativo alla Harmony Korine: poverissimo di “accadimenti”, privo di un intreccio forte e ben distinguibile e per buona parte della sua durata disorientante. I dialoghi non portano avanti la narrazione, servono piuttosto a ricordarci che una trama esiste – per questo il personaggio di Gael Garcia Bernal insiste ossessivamente ad incolpare la compagna per l’abbandono di Polo, nonostante per interi tratti il bambino non venga mai menzionato.
EMA È UNA «FESTA CONTINUA» E SEMBRA RISOLVERE TUTTO COL SESSO E CON LA DANZA
Fino alla fine non si capisce mai dove lo script – scritto da Guillermo Calderón e Alejandro Moreno – voglia andare. A un certo punto si ha persino l’impressione che il film si sia “perso”, che troppe sottotrame si siano propagate dall’iniziale dramma di Gàston, della sua compagna e di Polo.
Così il film procede per immagini piuttosto che per dialoghi, per brevi litigi fra i protagonisti che non trovano una risoluzione nella parole ma nel sesso o nella danza. Ema, in particolare, i guai della sua vita li stigmatizza – e risolve – ballando e facendo l’amore. Ogni danza, scena di sesso o semplice flirt è coreografato nei minimi dettagli: montaggio, musica e immagini sono ossessivamente precisi.
Se è vero, secondo Hemingway, che Parigi è una “festa mobile”, allora vedere Ema è come trovarsi in una “festa continua”, un vivere sempre di notte in spazi dove è la musica a scandire il ritmo di tutte le azioni degli uomini. Così Ema e le sue amiche – perfetto il casting di tutti i personaggi collaterali – si muovono all’unisono, come un branco. Sono una famiglia di donne ribelli che hanno lasciato casa e sono pronte a “commettere un crimine, se necessario.”
Insomma, Ema è una esperienza adrenalinica, godereccia e visivamente appagante. L’intreccio così povero è tenuto in piedi da un personaggio – Ema – e da un’attrice – Mariana Di Girolamo – semplicemente di un altro livello.
EMA È UNA FEMME FATALE CHE VUOLE ESSERE MADRE, UNA RAPPRESENTAZIONE DI TUTTO CIÒ CHE PUÒ ESSERE UNA DONNA
In conferenza stampa Pablo Larraín ha detto che Ema “Rappresenta il sole. Tutto gira intorno a lei.” Il personaggio interpretato da Mariana Di Girolamo è infatti imprevedibile poiché eclettica: è una artista piena di idee, di carisma, di leadership e senza alcun senso della misura. Si diverte con un lanciafiamme, lascia che il figlio adottivo abbia delle esperienze vagamente sessuali con lei e si trasforma quando la mattina va a scuola a insegnare “espressione corporea” ai bambini delle elementari.
Apparentemente non c’è niente di razionale nel suo personaggio e nelle azioni che compie. È pronta a tutto, non concepisce il concetto di “tradimento” e riesce a convincere le persone intorno a lei ad assecondarla in ogni follia. Ema ha per protagonista una femme fatale che desidera essere mamma, anche se forse non è adatta per farlo. E questo aspetto il film lo racconta meravigliosamente, inserendo Mariana Di Girolamo in tanti contesti diversi e apparentemente incompatibili.
Tutto il film è una lode alla donna, una esaltazione del perfetto corpo femminile delle giovani ballerine. Come ogni femme fatale della storia del cinema, tutte le protagoniste sono consce della propria bellezza e sanno come usarla. Il rischio di accusa di misoginia per Larraín esiste, eppure sarebbe sciocco e semplicistico etichettare il film in questo modo.
Perché Ema è molto di più. È – in senso positivo – la “pecora nera” della filmografia di Pablo Larrain, nonché uno dei film migliori della sua carriera. Cento minuti di “festa perenne”, di gioia per gli occhi e di esaltazione della gioventù, della libertà e di tutto ciò che c’è di bello ad essere donna. Apparentemente sconclusionato per ’70 minuti, magari irritante, ma mai noioso. Il finale geniale chiude in modo inaspettato questa gemma, celebrando il futuro, la famiglia alternativa e le possibilità di essere felici fuori dagli schemi.