L’attacco di Pearl Harbor, Shanghai come uno scacchiere e il dramma della guerra; ma anche una spia, un’amante e una diva internazionale: Saturday Fiction segna il battesimo di Lou Ye in concorso al Festival di Venezia, e il regista asiatico si candida a recitare un ruolo da protagonista nella corsa al Leone d’Oro e ai premi collaterali. Ambientato nel 1941, nei giorni dell’occupazione giapponese e dello scontro sotterraneo tra l’intelligence degli Alleati e le potenze dell’Asse, la pellicola racconta il ritorno a Shanghai della celebre attrice Jean Yu (Gong Li). Dopo aver vissuto all’estero per anni, l’artista decide di tornare a recitare in Saturday Fiction, spettacolo teatrale diretto dal suo ex amante Tan Na (Mark Chao). Ma non solo: Jean è anche una spia al servizio degli Alleati – ingaggiata dal padre adottivo (Pascal Greggory) – con la missione di carpire informazioni sul cifrario utilizzato dall’esercito imperiale nei messaggi segreti. Tra finzione e realtà, l’incarico si rivela ben più delicato del previsto e tutto sembra sfuggire al suo controllo, tra la prigionia dell’ex marito e le insidie rappresentate dalle persone a lei più vicine. A tal punto che Jean inizia a chiedersi se rivelare o meno ciò che ha scoperto.
SATURDAY FICTION MESCOLA GENERI CON SAGACIA
Come dicevamo, ci troviamo di fronte a una Shanghai frammentata tra varie zone d’influenza e preda di un clima di altissima tensione: l’occupazione giapponese deve fare i conti con la presenza sottotraccia di Francia e Inghilterra. Jean Yu è una celebrità, attrice e spia professionista: non una killer priva di scrupoli, ma una informatrice spinta dall’amore. Un sentimento che la lega anche alla pièce teatrale, che rappresenta un’altra sfera di dissidio: da una parte gli sforzi perpetrati dal misterioso produttore (Joe Odagiri) per averla, dall’altra le speranze del regista che si tratti di un atto di amore per lo spettacolo (e nei suoi confronti). Snodi narrativi che chiamano in causa sempre la protagonista, con Gong Li che si conferma una delle attrici migliori della storia del cinema asiatico: l’interprete di Lanterne rosse e La storia di Qiu Ju riesce a comunicare allo spettatore le sue lotte interiori, con la delicatezza e la femminilità che la contraddistinguono. Un personaggio complesso che entra sempre più in azione, pronto a sacrificarsi in nome dell’amore. Distante anni luce da Atomica Bionda, molto più vicino a Casablanca.
REALTÀ E FINZIONE, VITA E TEATRO
Spy movie, noir, melodramma: Lou Ye mescola con sagacia generi cinematografici e lo fa in un bianco e nero elegante, con una raffinatezza estetica che ammalia lo spettatore. Particolarmente accattivante il gioco di luci nel corso delle sparatorie, potenziato dalla pioggia battente che aggiunge quel tocco in più di grandiosità. Saturday Fiction parte a rilento, per accendersi con il trascorrere dei minuti: una crescita esponenziale dovuta al compenetrarsi di realtà e finzione, di vita e teatro. Vincente la scelta di disorientare in alcune sequenze lo spettatore, spaesato sulla natura dell’azione. Una trama ricercata che rischia di risultare pleonastica – a volte purtroppo ci riesce – senza però scadere nella vacuità. Ispirato al romanzo La donna vestita di rugiada di Hong Ying, l’ultimo lavoro del regista di Spring Fever tocca marginalmente anche il tema della repressione e del lavoro, attraverso l’espediente dello spettacolo programmato al Teatro Lyceum.
Lou Ye opta per riprese frenetiche, piani sequenza che mettono in luce la bravura del cast. Una forbita rivisitazione alla storia del cinema cinese delle generazioni precedenti. Oltre alla già citata Gong Li – seria candidata per la Coppa Volpi – una menzione particolare per l’ottima Huang Xiangli, che veste i panni di una fan-spia di Juan Ye e che assume grande rilevanza nell’incedere del racconto.