In occasione del suo debutto nel 2017, avevamo già spiegato le ragioni per cui Mindhunter era stato uno dei miglior show di quell’anno. La sua idea di capovolgere gli assunti classici del crime, il suo azzardo nel non mostrare ma nel far intuire e la capacità di concentrarsi sugli approfondimenti psicologici piuttosto che sulle materialità del racconto l’hanno resa una serie estremamente innovativa. Dopo 2 anni di assenza la creatura di David Fincher e Joe Penhall è tornata su Netflix con una seconda stagione che non solo mantiene l’impianto narrativo della prima ma addirittura lo evolve rendendolo ancora più complesso e stratificato.
MINDHUNTER 2, UNA STAGIONE CON DUE CAPITOLI IDEALI
Se infatti la storia riprende da dove l’avevamo lasciata – con Holden Ford (Jonathan Groff) che si risveglia su un letto d’ospedale dopo essere stato abbracciato “affettuosamente” da uno dei più perversi serial killer della storia, Ed Kemper (Cameron Britton) – da un punto di vista narrativo la seconda stagione può essere quasi divisa in due capitoli ideali: i primi tre episodi, diretti da David Fincher, e i restanti sei diretti da Andrew Dominik (Chopper, Killing Them Softly) e da Carl Franklin (Il Diavolo In Blu). Fincher inserisce nelle prime tre puntate numerosi spunti, divagazioni e ripetuti cambi di traiettoria che disorientano anche lo spettatore più attento: frammenti di interviste con i più famosi serial killer statunitensi (tra loro David Berkowitz, William “Junior” Pierce e William Henry Hance) e, in parallelo, indagini su casi in corso che generano un labirinto di sottotrame che non portano, come da consueto, da nessuna parte. Consapevolmente il regista di Seven ci consegna dei ritratti non completi e lo fa splendidamente, dirigendo delle sequenze monche ma memorabili utilizzando una tavolozza di colori minacciosi tra marrone fango e nero abisso: un marchio estetico ormai consolidato con Zodiac. Dal quarto episodio in poi la narrazione rientra invece su una carreggiata più lineare ed univoca, seguendo quello che sarà il vero caso da risolvere ovvero quello sugli omicidi di bambini avvenuti a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta ad Atlanta. Nonostante questa cesura visibilissima, quasi tutti gli episodi sono attraversati dalla presenza di BTK (Sonny Valicenti): come già avvenuto nella prima stagione, alcuni inserti ad inizio puntata raccontano la quotidianità del serial killer di Wichita, unico filo conduttore delle due stagioni e, probabilmente, delle prossime che verranno (almeno altre tre, come ha pronosticato Fincher).
L’EMANCIPAZIONE DI HOLDEN FORD
Un’altra discontinuità visibile è rappresentata dal ruolo di Holden Ford che, nonostante non sembra aver superato le proprie ossessioni per i lati malvagi dell’essere umano (per cui continua ad andare matto), ha accettato la sua macabra debolezza provando a gestirla a suo favore gongolando quando Ted Gunn (Michael Cerveris), nuovo Capo della divisione di Quantico, riconosce in lui una risorsa per innovare il modus operandi delle indagini dell’FBI. Holden quindi si emancipa, si istituzionalizza. Non rinuncia alle sue convinzioni ma acquista una nuova sicurezza nella loro esposizione, tanto che rischia di peccare perfino di arroganza. La crescita di Holden va di pari passo con i suoi obiettivi: adesso il ragazzo punta in alto, scartando assassini di bassa lega per concentrarsi, ad esempio, su Charles Manson, il più famoso dei serial killer (interpretato dall’australiano Damon Herriman, scelto da Quentin Tarantino per lo stesso ruolo in C’era Una Volta A… Hollywood). A fare da contrappeso alla fuga in avanti di Holden arriva Jim Barney (Albert Jones), che nei suoi interrogatori sembra al contrario possedere proprio le caratteristiche del Ford originario: si mette nei panni degli assassini con umiltà, freddezza e distacco. Ma, a differenza di Holden, non ne rimane succube.
MINDHUNTER 2 E LA SUA CORALITÀ
Oltre che alla figura di Holden Ford, Fincher decide di dare spazio anche alle vite degli altri due agenti ovvero Bill Tench (Holt McCallany) e Wendy Carr (Anna Torv). I due prendono il testimone di Ford proprio nell’approfondimento delle relazioni tra immagini pubbliche e tensioni private, in un’ambivalenza che spesso confonde i confini fra le esistenze dei membri del team di Quantico e l’oggetto dei loro studi. Tench deve fare i conti con un dramma familiare in cui è coinvolto il piccolo figlio adottivo Brian (Zachary Scott Ross): una sorta di indagine investe la sua famiglia facendo eco proprio ai casi che lo stesso Tench segue sul comportamento degli assassini seriali. Wendy Carr è invece alla prese con una relazione sentimentale che vede coinvolta una barista divorziata (Lauren Glazier), innescando una doppia spirale tematica: da una parte, come lesbica, teme di essere emarginata al lavoro (l’omosessualità viene più volte ritenuta una “deviazione” dai suoi colleghi), dall’altra utilizza la sua sessualità durante un’intervista con un assassino, Elmer Wayne Henley Jr. (Robert Aramayo), presunto omosessuale. In ogni caso Wendy è uno personaggi più approfonditi e sfaccettati della seconda stagione, dimostrando una certa lontananza di Mindhunter dalle strutture più canoniche dei crime in cui il ruolo delle donne viene limitato o addirittura escluso.
LA RAPPRESENTAZIONE DELLA COMPLESSITÀ DEL MONDO
Alla coralità narrativa si accompagna un inedito confronto fra il team per lo studio comportamentale di Quantico e la realtà al di fuori del loro scantinato. Per la prima volta Holden e Tench si trovano infatti a dover convalidare le proprie tesi sulla profilazione dei serial killer attraverso un’indagine in corso, quella degli omicidi dei bambini di colore ad Atlanta, e sono così costretti ad applicare nella pratica le loro teorie. Holden è certo che l’assassino di bambini afroamericani sia esso stesso un uomo di colore ma questa convinzione fa a pugni con le tensioni sociali, razziali e politiche della comunità locale (ancora succube dello scorribande del Ku Klux Klan) e trovano non pochi ostacoli nelle diffidenze del Sindaco e delle forze dell’ordine. Non bastano dunque le buone intenzioni ed efficaci ricerche metodologiche: di fronte alla complessità del mondo, Ford e Tench, con l’ausilio di Jim Barney, devono necessariamente sporcarsi le mani con il lato più artigianale dell’investigazione. In una lunga sequenza vediamo i nostri avvicendarsi in uno dei metodi più convenzionali per un’indagine ovvero un appostamento notturno di quasi due mesi. Ed è solo grazie a questa svolta da crime classico che il killer di Atlanta, Wayne Williams (Christopher Livingston), viene effettivamente catturato. Ma la complessità del mondo continua a bussare alla porta e anche questa storyline rimane in realtà sospesa e non completamente risolta.
L’ILLUSIONE DEL CONTROLLO
Capiamo allora che c’è un filo sottile che collega la seconda stagione, un tema ricorrente che mette insieme i pezzi di un puzzle apparentemente disorganico e inconcludente: il controllo. Tutti i personaggi cercano di controllare le proprie vite e le proprie tensioni: BTK cerca di tenere sotto controllo le proprie pulsioni omicide, Ford cerca di tenere sotto controllo la sua inadeguatezza sociale e i suoi attacchi di panico, Tench cerca di tenere sotto controllo l’incolumità della propria famiglia, Carr cerca di tenere sotto controllo i propri sentimenti e la propria sessualità. Ma c’è di più, e sembra dircelo proprio l’interrogatorio di Ford e Tench a Charles Manson. L’appassionante visione del mondo e le acrobazie retoriche di Manson sembrano convincere Holden della sua innocenza (a dire il vero Manson è talmente persuasivo e appassionato che pare convincere anche noi spettatori). Solo poco dopo, quando Ford intervista Tex Watson – uno dei discepoli della setta di Manson che ha guidato la strage a Cielo Drive e che probabilmente ha ucciso più di chiunque altro – ci rendiamo conto di quanto controllo Manson avesse effettivamente sui suoi seguaci, così come lo avuto, per un momento, su di noi.
In fondo di questo ci parla Mindhunter e lo fa in questa stagione in un modo ancora più sottile. Siamo attratti dal male, sedotti da storie borderline e, allo stesso tempo, siamo sicuri del controllo che abbiamo su di esse: imponiamo, o pensiamo di imporre, schemi razionali al caos (la linearità della seconda parte di stagione è coerente in tal senso). Pensiamo di avere il controllo ma non è così. La dimostrazione è proprio il finale che solo in parte risolve la vicenda del killer di Atlanta. Una sorta di compromesso, tanto frustrante come lo è stata la nostra sensazione di non aver avuto la piena padronanza di quello che abbiamo visto. Ecco allora che la lezione è semplice quanto amarissima: il controllo è un’illusione. E lo è per tutti. Che tu sia un serial killer, un agente dell’FBI, David Fincher o un fan di Mindhunter.