Il signor Porter, un latifondista cileno che deve unirsi in matrimonio con una sposa bambina, non arriverà mai, ma intanto nell’attesa che si presenti questa sorta di novello Godot, dietro azioni e dialoghi apparentemente senza senso il mondo cambia e il dramma umano si consuma catturato dall’obiettivo della macchina fotografica. Blanco en Blanco, vincitore per la Miglior Regia nella sezione Orizzonti della 76° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e disponibile in streaming su Festival Scope, ricorda il massacro dei nativi sudamericani che abitavano nella Terra del fuoco e, seppur partendo da fatti così drammatici, celebra la fotografia. Un’arte che documenta la vita impressa sulla pellicola ma anche quella del fotografo.
IN BLANCO EN BLANCO UN FOTOGRAFO, UNA SPOSA BAMBINA E UN ECCIDIO RAZZIALE
Blanco en Blanco ha per protagonista Pedro, un fotografo che agli inizi del Novecento arriva nella Terra del Fuoco, tra Cile e Argentina, chiamato per un servizio fotografico alle nozze tra il signor Porter, un ricco proprietario terriero, e Sara, poco più che una bambina. Pedro rimane immediatamente colpito dalla bellezza, dalla grazia e dalla dolcezza di Sara, alla quale con il passare del tempo riserverà attenzioni particolari. La giovane donna diventerà il suo oggetto di un desiderio proibito, a cui si dedicherà anche perché il ritardo del signor Porter, promesso sposo, si farà sempre più lungo e dopotutto quella terra così arida e poco abitata non permette di trascorrere il tempo con altri svaghi o in altri ambienti che con siano la casa della famiglia di Sara. Una casa cupa, buia, enigmatica come le persone e i paesaggi (esaltati dal regista con l’uso costante del color seppia) di quei luoghi. Dopo giorni e giorni di permanenza, in attesa dell’arrivo del signor Porter e scoperte dalla famiglia le sue ossessioni morbose verso Sara, Pedro, non potendo darsi alla fuga, per sopravvivere viene assoldato a documentare l’eccidio dei Selknam, un popolo indigeno sterminato dai cileni per appropriarsi delle terre e costruire una nuova società. Una società bianca in un paesaggio bianco di cielo e di terra innevata. Bianco su bianco.
L’ATTORE DI PABLO LARRAÍN PER UN FILM DALLA FOTOGRAFIA STRAORDINARIA
Théo Court, che ne ha firmato la regia, ha riprodotto sul grande schermo alcune delle fotografie originali che lo hanno ispirato per il film e con le quali si era chiesto chi e perché le avesse scattate, dando così il via alla sua storia, alla storia del Cile di quegli anni e alla storia di Pedro, impersonato magnificamente da Alfredo Castro, di cui tra l’altro si ricordano memorabili interpretazioni in tanta filmografia di Pablo Larraìn e protagonista di Ti Guardo di Lorenzo Vigas, film già vincitore a Venezia 2015. La sceneggiatura non sempre gira a pieno regime ma la fotografia di Blanco en Blanco, grazie anche a José Alayòn (fotografia) e Yannig Willman (effetti visivi) è quanto di più bello un film possa offrire. Il ricorso dal tutto schermo ai 4:3 per riprodurre e mettere lo spettatore completamente dentro quelle foto d’epoca sono una trovata probabilmente un po’ furba ma sicuramente efficace. Parallelamente alle immagini Théo Court ha costruito con grande maestria tutti i movimenti dei suoi personaggi; movimenti connotati da una plasticità esasperata che stride, ma per questo rende l’idea suscitando emozioni e interrogativi, con la durezza dei luoghi e dei fatti narrati. A rende possibile tutto ciò, altre ad Alfredo Castro, le interpretazioni di Lars Rudolph, Lola Rubio, Esther Vega, Alejandro Goic e Ignacio Ceruti.
L’operazione del regista cileno-spagnolo sembra quella di creare un cinema di denuncia che sia sì di finzione ma che si inserisca nel solco documentaristico di Patricio Guzmàn (Nostalgia della luce e La memoria dell’acqua). Guzmàn, anche lui molto attento all’immagine, attinge prevalentemente dal reale mentre la regia di Court appare molto più auto compiacente, anche se la precisione e la suggestione caratterizzano le sue scene, anzi tutti i suoi fotogrammi che sono costruiti nei minimi particolari. In Blanco en Blanco ogni frame è una pennellata precisa e suggestiva come un’opera di un pittore fiammingo. Del resto Venezia, come si sa, è giustamente sensibile alla confezione stilistica del prodotto-film, come dimostrano i due premi assegnati al regista svedese Roy Andersson nell’arco di cinque anni.