C’Era Una Volta A Hollywood (titolo originale Once Upon A Time In Hollywood), nono titolo di una filmografia che a detta dello stesso regista potrebbe fermarsi a dieci lungometraggi, è anche uno dei capitoli più sorprendenti dell’intera carriera di Quentin Tarantino. Un film profondo ed essenzialmente triste nascosto sotto la superficie di un contrappunto chiassoso e citazionista; che alla maniera del riscopritore del pulp si regge su una sarabanda di ritmo sincopato, grande ironia, violenza esplicita e vocazione popolare. Indirettamente imperniato sulla tragica morte di Sharon Tate (qui interpretata da Margot Robbie) per mano dei seguaci di Charles Manson, C’Era Una Volta A… Hollywood è in realtà soprattutto il ricordo nostalgico di un periodo di trasformazione dell’industria cinematografica statunitense – e con essa di un pezzo di identità americana (ve ne abbiamo parlato qui). Ad accompagnarci in questo ritratto di questo momento di passaggio, la storia di un attore (Leonardo DiCaprio) e della sua controfigura (Brad Pitt) – amici per la pelle – la cui carriera per motivi diversi ha imboccato una discesa apparentemente inarrestabile.
Quando per primo il The Hollywood Reporter ha annunciato il progetto, immediatamente l’attenzione si è concentrata sull’aspetto più morboso della vicenda, e cioè quello dell’eccidio di Cielo Drive, commesso da Tex Watson (23 anni), Patricia Krenwinkel (21 anni) e Susan Atkins (21 anni), sotto la guida di Charles Manson. Benché il metraggio dedicato alla vicenda sia tutto sommato modesto, questa rimane il fulcro della storia ed è pertanto bene ricordarci nel dettaglio una dolorosissima pagina della storia americana, in modo da apprezzare e capire meglio le scelte narrative di Tarantino.
CHI ERA CHARLES MANSON? LA STORIA VERA DIETRO C’ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD.
Charles Manson, figlio di un militare che non volle riconoscerlo e di una ragazza madre dedita alla prostituzione e a crimini di varia natura, dopo aver vissuto per un periodo con la genitrice e un suo compagno dell’epoca (da cui prese il cognome), in seguito alla di lei carcerazione crebbe tra orfanotrofi e istituti di correzione, prima di ricongiungersi alla donna e vivere di espedienti vagabondando per gli Stati Uniti da un motel all’altro. La sua vita sregolata lo portò inevitabilmente a passare diversi anni in carcere, dove scoprì e coltivò la passione per la musica (e per i Beatles in particolare) e un interesse ossessivo per l’esoterismo, l’ipnotismo e il condizionamento subliminale.
Ormai trentatreenne, uscì su cauzione nel marzo del 1967 e durante la celebre summer of love si recò insieme a migliaia di figli dei fiori a San Francisco, dove esercitò il suo fascino da personaggio ‘maledetto’ su delle ragazze perlopiù di estrazione borghese in cerca di ribellione, coalizzando un piccolo gruppo di giovanissimi soggiogati dalla sua forte personalità, con i quali passò il resto dell’anno vagabondando su uno scuolabus dipinto di nero.
LA MANSON FAMILY, DA FIGLI DEI FIORI AD ASSASSINI
Quel gruppo sempre più nutrito si trasformò presto in una comune hippie, che nel giro di un paio d’anni arrivò a includere un centinaio di ragazzi – provenienti tanto da famiglie ricche quanto da contesti disagiati – e dopo aver provato diverse sistemazioni stanziali trovò una casa stabile in un ranch abbandonato fuori Los Angeles. Erano conosciuti come la Manson Family (o più semplicemente The Family), dedicavano la maggior parte del tempo a sesso, droga e musica, avevano inizialmente ideali prevalentemente pacifici e dai forti tratti ambientalisti ma si mantenevano con furti, spaccio e donazioni (da parte ad esempio di insospettabili come Dennis Wilson, batterista dei Beach Boys, entrato in contatto con la setta per mezzo di quella che sarebbe diventata una delle assassine degli omicidi Tate-LaBianca).
HELTER SKELTER E L’OSSESSIONE DI CHARLES MANSON PER LA CANZONE TRATTA DAL WHITE ALBUM DEI BEATLES
Abbiamo già accennato alla passione di Manson e dei suoi adepti per la musica e in particolare per i Beatles, ma nella ricchissima discografia dei Fab Four c’è una canzone in particolare che ha un legame strettissimo con l’assurda parabola della Manson Family, ed è Helter Skelter.
Contenuta nel White Album (1968) e composta interamente da Paul McCartney, Helter Skelter nasce dal tentativo di esplorare sonorità decisamente ruvide e rumorose, sull’ispirazione delle parole di una recensione di un singolo degli Who che definiva il brano I Can See For Miles come «la canzone più cattiva e selvaggia mai registrata». Il pezzo dell’Album Bianco dei Beatles, caratterizzato da un riff semplice e potente seguito da un altro riff su scala discendente a volume ancora più alto nel ritornello, ha il suono chiassoso e potente di chitarre distorte e riverberate accentuato da un energico accompagnamento di batteria giocato molto sui piatti, abbinato a un cantato praticamente urlato. In confronto il pur bellissimo brano degli Who sembrava quasi una filastrocca per educande.
Helter Skelter è il nome con cui venivano definiti i grandi scivoli elicoidali che si trovavano allora nei luna park e fiere britanniche, e per estensione era il termine con cui ci si riferiva a qualcosa di caotico e confuso. Il brano, che è di fatto uno dei primi esempi del nascente genere musicale heavy metal, raccontava un rapporto di coppia attraverso la metafora di una giostra, eppure il testo agli occhi di Manson divenne uno strumento per condizionare il futuro della sua setta.
Manipolatorio e delirante, sfruttando l’adorazione collettiva per i quattro di Liverpool, Charles Manson convinse i suoi seguaci che il White Album fosse in realtà una profezia in codice sul ruolo che la Family avrebbe avuto dopo un prossimo stravolgimento razziale. La sua leadership e il suo ascendente sul gruppo erano andati sempre più consolidarsi, tanto che si era sviluppato una sorta di culto messianico nei suoi confronti, e ora in quel disco Manson aveva trovato il suo ‘testo sacro’.
Divenuto ormai un folle predicatore tra politica, esoterismo e psichedelia, l’uomo spiegò ai suoi che era vicino l’inizio di una grande guerra razziale, nella quale bianchi razzisti e antirazzisti sarebbero stati portati a uccidersi a vicenda per imporre la propria visione del mondo, lasciando la popolazione nera come unica superstite. A quel punto sarebbe però stata la Manson Family, sopravvissuta nascondendosi in un pozzo mistico nella Valle della Morte, a riemergere dal sottosuolo come unica stirpe bianca, pronta ad avere il comando sugli afroamericani. Secondo il santone i testi dei Beatles, e in particolare di Helter Skelter e di Piggies (canzone di satira politica scritta da George Harrison), descrivevano e anticipavano proprio questa sorta di apocalisse. In quella strana comune che somigliava sempre più a una setta la summer of love era già un lontano ricordo, il delirio era all’ordine del giorno e, con la perdita di ogni senso della realtà e l’ormai totale rifiuto delle convenzioni sociali, germogliava la percezione che ogni loro azione fosse lecita.
LA NOTTE DELLA MORTE DI SHARON TATE E DEGLI OMICIDI DI 10050 CIELO DRIVE
La notte tra l’8 e il 9 agosto 1969, su richiesta di Manson, il ventitreenne Tex Watson accompagnò al civico 10050 di Cielo Drive Susan Atkins (che il luglio precedente si era già macchiata dell’omicidio di un insegnante di musica su ordine del suo leader), Patricia Krenwinkel e Linda Kasabian (che nel film è interpretata da Maya Thurman-Hawke, la figlia di Uma Thurman e Ethan Hawke recentemente vista in Stranger Things 3).
I quattro membri della Family si erano recati lì perché era la villa di Terry Melcher, discografico che si era rifiutato di produrre un disco di Manson (gli era stato presentato da Wilson, il batterista dei Beach Boys). Le istruzioni erano quelle di «distruggere totalmente chiunque vi trovassero, il più violentemente possibile». Nella casa c’erano l’attrice e modella Sharon Tate, moglie incinta di otto mesi e mezzo del regista Roman Polanski (che era in Inghilterra per lavoro); il suo amico fraterno ed ex Jay Sebring, parrucchiere di grido; l’amico di Polanski e aspirante sceneggiatore Wojciech Frykowski e la sua compagna Abigail Folger, ereditiera di un impero del caffè.
Ospiti di quella serata dovevano essere anche Quincey Jones e Steve McQueen con la sua ragazza, che però per loro fortuna cambiarono programmi all’ultimo.
LA STORIA VERA A CONFRONTO CON C’ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD
Se avete visto C’Era Una Volta a Hollywood sapete come si sviluppano nel dettaglio gli eventi del finale del film, mentre se ancora non lo sapete non saremo noi a rovinarvi la visione. Va però detto che ci sono significative differenze tra il film e la storia vera.
ATTENZIONE: SEGUE LA DESCRIZIONE DEGLI OMICIDI DI 10050 CIELO DRIVE, CHE POTREBBE TURBARE LA SENSIBILITÀ DEI LETTORI
Gli assassini si avvicinarono alla villa col buio, dopo aver tagliato i cavi del telefono, e temendo che il cancello fosse elettrificato o collegato a un sistema di sicurezza si introdussero nel giardino passando da un terrapieno al lato della struttura. Fu in quel momento che Tex vide avvicinarsi le luci di una macchina e, ordinato alle ragazze di nascondersi tra i cespugli, le andò incontro e ordinò al guidatore di fermarsi. Per lui, un venditore porta a porta di diciotto anni che tornava dalla casa del custode del complesso, non ci fu niente da fare: nonostante le rassicurazioni sul fatto che non avrebbe dato l’allarme, venne ucciso con un fendente di coltello e quattro colpi di arma da fuoco. La donna che era con lui fu poi lasciata in vita. La seguace Linda Kasabian non scappò come nel film, ma ricevette l’ordine di restare a guardia del cancello mentre gli altri facevano irruzione.
A quel punto Watson, la Atkins e la Krenwinkel furono liberi di entrare silenziosamente nel luogo del delitto, ma i loro bisbigli svegliarono Frykowski, che dormiva sul divano in soggiorno. L’uomo provò a chiedere chi fossero ma venne immediatamente colpito con un forte calcio in testa da Watson, che poi mentre gli legava le mani con un asciugamano rispose «Sono il Diavolo, e siamo qui per fare il lavoro del Diavolo». A quel punto la Atkins e la Krenwinkel andarono a prendere le altre tre vittime portandole al cospetto di Tex.
Sharon Tate e Jay Sebring vennero fatti mettere schiena a schiena e legati insieme per il collo con una corda, che venne passata sopra una trave del soffitto, con l’intento di impiccarli. Sebring provò a ribellarsi al trattamento che veniva inferto alla donna incinta, e per questo Watson gli sparò nel petto con la sua calibro .22 e più tardi, mentre rantolava morente, lo pugnalò sette volte. Abigail Folger veniva intanto portata dalla Atkins in camera per svuotare il contenuto del suo portafoglio (vi erano solo 70 dollari). Frykowski provò dapprima a confrontarsi con gli aggressori e poi a scappare, ma fu ucciso con cinquantuno pugnalate e due colpi di pistola. Sorte analoga toccò alla sua compagna, che dalla porta della camera da letto provò a fuggire in direzione della piscina prima di essere assassinata.
IL VANO TENTATIVO DI INTERROMPERE IL MASSACRO
Mentre Sharon Tate rimaneva l’unica in vita, Linda Kasabian – che era a fare da palo – si avvicinò alla villa sconvolta dai terribili suoni della carneficina e pentita di aver partecipato anche solo passivamente a quel massacro cercò di interromperlo provando a convincere i suoi amici che stesse arrivando qualcuno su per il viale.
Dentro casa la povera Sharon Tate intanto faceva di tutto per cercare di salvare suo figlio, provando a convincere gli aguzzini a sequestrarla e tenerla in ostaggio abbastanza a lungo da farlo nascere, per poi ucciderla. Fu a questo punto che la sua giovane vita venne spenta dai tre con sedici coltellate. Da quanto risulta dagli atti processuali, nello spegnersi la ragazza ripeté disperata la parola «madre». Seguendo l’invito rivolto loro da Manson allo Spahn Ranch a «lasciare un segno, qualcosa da streghe», la Atkins prese l’asciugamano con cui avevano legato Frykowski, lo intrise nel sangue della Tate e lo usò per scrivere sulla porta d’ingresso la parola «pig» (maiale).
Gli assassini fuggirono poi indisturbati, lasciandosi dietro sei vittime strappate senza ragione e con assurda ferocia alle proprie vite. Al figlio mai nato di Sharon Tate e Roman Polanski verrà dato il nome postumo di Paul Richard Polanski. Nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica e convincere chiunque avesse visto qualcosa a testimoniare, Roman Polanski rilascerà un’intervista a Life Magazine lasciandosi fotografare davanti alla porta di casa ancora sporca del sangue della moglie, sollevando non poche polemiche.
LA NOTTE DOPO L’OMICIDIO TATE: L’OMICIDIO LABIANCA
La notte dopo il massacro di Cielo Drive, i quattro discepoli, accompagnati da altri due adepti e da Charles Manson stesso, partiranno alla volta di 3301 Waverly Drive, residenza di Leno e Rosemary LaBianca (il dirigente di una catena di supermercati e sua moglie), per uccidere brutalmente la coppia, scrivendo poi con il sangue la frase «death to pigs» (morte ai maiali) e la parola «rise» (sorgi) sulla parete del soggiorno e le parole «healter skelter» (con tanto di errore grammaticale) sullo sportello del frigorifero. Quella stessa notte tenteranno anche un altro omicidio, che sarà sventato da Linda Kasabian che busserà appositamente alla porta sbagliata, in modo da non trovare l’aspirante attore che era la vittima designata.
RICORDARE L’ORRORE SERVE A CAPIRE IL PERCHÉ DELLE SCELTE DI QUENTIN TARANTINO
Arrivati a questo punto vi starete forse chiedendo perché abbiamo scelto di riportare nel dettaglio su un sito di Cinema gli indicibili orrori cui in qualche modo Quentin Tarantino ha reso il fulcro del suo Once Upon A Time in Hollywood, e la ragione non risiede nella soddisfazione di qualche morbosa curiosità (per quello basta una ricerca su Google), ma nel voler sottolineare come Tarantino sia riuscito a rendere omaggio alle vittime – e a Sharon Tate in particolare – privando di ogni perverso fascino una vicenda che ha contribuito a creare il carisma criminale dell’icona negativa Charles Manson, ma che di affascinante non ha veramente nulla.
Il nome del leader della Family ha vissuto di rinnovata celebrità quando è stato adottato come pseudonimo del cantante Marylin Manson, e soprattutto nel periodo intercorso tra il quarantennale e il cinquantennale della strage non sono mancati film che hanno sfruttato in chiave horror, sensazionalistica o pruriginosa quello che è prima di tutto un dolorosissimo dramma; spesso tanto insensibili nel cavalcare l’orrore da risultare profondamente offensivi verso le vittime – si pensi ad esempio all’indecoroso Tate: Tra Incubo e Realtà con Hilary Duff.
C’è anche chi ha trattato esplorato con più tatto le implicazioni psicologiche della vicenda però, si pensi a Charlie Says di Mary Harron (già regista di American Psycho) o alla seconda stagione della serie Netflix Mindhunter (nella quale Manson è interpretato da Damon Herriman, lo stesso attore che gli dà il volto anche in C’Era Una Volta A Hollywood), e non sono mancate figure liberamente ispirate al magnetico criminale, come quella interpretata da Chris Hemsworth in 7 Sconosciuti a El Royale di Drew Goddard.
Gli ingredienti per una narrazione potente, purtroppo, ci sono tutti: un leader carismatico dalla grande retorica manipolatrice e dalle isteriche movenze teatrali, delle ragazzine speranzose trasformate in predatrici spietate, una ‘setta hippie’ dedita a sesso e droghe libere, fascinazioni esoteriche, una bellissima e innocente star di Hollywood che stava per diventare madre, un regista che l’anno prima aveva girato un horror demoniaco su una donna incinta (Rosemary’s Baby, 1968) e finanche una componente legata alla musica. Una combinazione così esplosiva da incidersi indelebile sull’immaginario collettivo, tanto da sembrare qualcosa di più e di diverso da quello che in realtà è stata: un vile e ignobile atto criminale che ha interrotto nel sangue sei vite incolpevoli e ha portato un immenso dolore nell’esistenza dei superstiti.
Ai moltissimi che nel corso degli anni hanno provato a mitizzare e stilizzare il ricordo di quell’incubo, con le sue scelte coraggiose Tarantino – da sempre maestro di un Cinema violento e spesso nichilista – ha invece risposto da genio quale è, mettendo in scena con un registro sorprendentemente delicato una vicenda tanto mostruosa da cambiare per sempre l’industria hollywoodiana e l’identità statunitense. Ed è proprio questo uno dei motivi principali per i quali C’Era Una Volta a Hollywood è di gran lunga uno dei suoi film più significativi, nonché un grande promemoria di quanta differenza ci sia nell’allestire per il grande schermo una violenza astratta o nel raccontare fatti di cronaca nera che hanno dei nomi e cognomi. È prima di tutto una questione di sensibilità e responsabilità, e il maestro di Pulp Fiction e Kill Bill è ora tanto maturo da volercelo ricordare.