Matthew Michael Carnahan, sceneggiatore dal curriculum importante (ha curato gli script, tra gli altri, di Leone Per Agnelli e State Of Play), ha presentato fuori concorso alla 76. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia la sua opera prima Mosul. Prodotto dai fratelli Joe ed Anthony Russo, i registi divenuti famosi grazie al Marvel Cinematic Universe, il lungometraggio è ispirato alla vera storia della SWAT Ninevah, una squadra speciale di poliziotti nata per liberare la città di Mosul dall’ISIS.
UNA VERA STORIA DI CORAGGIO E DETERMINAZIONE
Tratto da un articolo del New Yorker a firma di Luke Mogelson, Mosul racconta con uno stile semidocumentaristico la liberazione della cittadina irachena di Mosul, che ha rappresentato il maggior punto di debolezza dello stato islamico di Daesh (autoproclamato nel 2014 tra i confini di Iraq e Siria). Tra i vicoli strettissimi della cittadina irachena si nasconde la speranza di liberare la popolazione sottomessa e usurpata dall’ISIS.
Carnahan riesce nell’operazione di utilizzare il punto di vista soggettivo della squadra speciale, non occidentalizzando la cornice interpretativa. La pellicola è girata in iracheno con interpreti mediorientali, seguendo il chiaro intento di voler descrivere la guerra civile con gli occhi della popolazione coinvolta che l’ha vissuta sulla propria pelle.
Mosul è uno dei rari film statunitensi dove non è presente il punto di vista americano sulle questioni del Medio Oriente ma si limita a seguire le vicende di chi sente la sua appartenenza al luogo ed è coinvolto, sia emotivamente che fisicamente, da una guerra che sembra non finire mai.
MOSUL RACCONTA LA LIBERAZIONE DALL’ISIS
La SWAT Ninevah, guidata dal generale Jasem (Suhail Dabbach), si muove nei dintorni di Mosul, cercando spie dell’ISIS con lo scopo di avanzare verso la città irachena. La squadra è una vera e propria leggenda per i militari e la popolazione locale, tutti convinti che sia stata smantellata dai terroristi e che i membri siano morti. Mentre il generale esegue un controllo ordinario, incontra il giovane poliziotto Kawa (Bilal Adam Bessa) e decide di reclutarlo nella sua squadra con il non facile appoggio del suo secondo, Waleed (Is’Haq Elias).
Kawa dimostra di essere un soldato valido e con uno spirito d’iniziativa che non sempre lo portano ad eseguire gli ordini. Ignaro dello scopo reale della missione sarà guidato dal generale Jaseem, un uomo di carattere capace di alternare atti di estrema brutalità a momenti di veritiera comprensione.
Matthew Michael Carnahan mostra come dietro al casco non ci siano gli occhi di un militare americano addestrato alla guerra ma quelli di un ventenne iracheno, che non sa neanche perché sta combattendo però comprende di dover compiere un atto di liberazione della sua città per il suo popolo.
La bravura del regista, che per la prima volta si cimenta dietro la camera da presa, sta nell’inserire il suo punto di vista attraverso la profondità espressiva dei due protagonisti Kawa e Jaseem con il linguaggio e la gestualità che li appartiene, scaraventando lo spettatore in scena.
UN FILM CONTRO LA BRUTALITÀ DELLA GUERRA
Il talento di Carnahan si vede anche in fase di script, dove la progressione degli eventi si sussegue con realismo in un crescendo che si chiude con una grande rivelazione. L’autore riesce a mantenere gli eventi sul filo della tensione non lasciandosi andare al facile racconto del passato dei protagonisti ma scoprendone progressivamente i punti di forza e di debolezza.
Altra nota positiva è l’educazione allo sguardo, a cui Carnahan ci abitua sin dal primo momento. Le espressioni di Kawa, Jasem, Waleed valgono più di mille parole e, nonostante il clima di guerriglia urbana sia tra i più devastanti che la storia abbia mai conosciuto, le lacrime non scorrono, i gesti sono pacati, quasi immobili, atterriti dalla crudeltà di un mondo feroce; tutti questi dettagli sottolineano il valore di un’opera prima decisamente interessante.