Un fantasma si aggira per questa stagione cinematografica. Un fantasma che fa tremare perfino i ritorni di Scorsese e Tarantino e punta ad essere il vero caso del 2019. Parasite di Bong Joon-ho, dopo aver vinto la Palma D’Oro all’ultimo Cannes conquistando la giuria presieduta da Alejandro González Iñárritu, ha sbancato i botteghini francesi e ha scalato la classifica di quelli statunitensi, sfondando la media per sala più alta dai tempi di La La Land (per intenderci la 18esima più alta nella storia del cinema americano). Per la Sud Corea è uno dei più grandi successi di pubblico e di critica dai tempi della trilogia di Park Chan-wook, tanto che adesso Parasite guarda verso la prossima notte degli Oscar per assicurarsi un posto nell’olimpo dei capolavori.
I Kim, i Park e il classismo della società sudcoreana
Bizzarro che questa ascesa incontrollabile stia avvenendo per un film che segna il ritorno in patria di Bong Joon-ho mentre negli ultimi cinque anni il regista si era cimentato in grandi produzioni internazionali come Snowpiercer e Okja (quest’ultimo prodotto da Brad Pitt e distribuito da Netflix). Al contrario con Parasite l’autore di Taegu torna a raccontare una storia visceralmente sudcoreana (sia per caratteri che ambientazione) con protagoniste due famiglie diametralmente opposte per estrazione economica e sociale, i Kim e i Park. Due famiglie che rappresentano simbolicamente il classismo della società sudcoreana: la prima vive in un modestissimo seminterrato in periferia e si arrangia come può per sbarcare il lunario; la seconda naviga nel lusso di una villa nel quartiere residenziale più prestigioso della città (con tanto di governante ed autista). Quando il primogenito dei Kim, Ki-woo (Choi Woo-shik) riuscirà ad essere assunto dalla famiglia Park come insegnante di inglese della giovane Da-hye (Jeong Ji-so), i Kim inizieranno, uno dopo l’altro, a farsi reclutare nella villa dei Park attraverso astuti espedienti, anche ai danni del personale già assunto. Un riposizionamento sociale lucidissimo e spietato ma che presto deve fare i conti con una presenza terza, assolutamente inaspettata e non calcolata.
La triangolazione di fuoco micidiale
Bong Joon-ho avanza in questa narrazione disarticolando e sovrapponendo registri e generi, fino a una splendido affresco multicolore, tanto diverso nelle sfumature quanto miracolosamente legato ed omogeneo nel suo sguardo sulla realtà. Inizia quasi come una commedia degli equivoci, sottile e sagace, ma lentamente assume toni sempre più scuri e cupi. Diventa thriller, sfiora l’horror, esplode nello splatter. Per dirla meglio, Parasite diventa una triangolazione di fuoco micidiale che intercetta il sociale, il grottesco e il dramma e noi – che siamo il bersaglio di quel fuoco incrociato – ne rimaniamo succubi per le due ore e passa di film attraversando un caleidoscopio di sensazioni e di emozioni. Per i primi sessanta minuti ridiamo di gusto; poi continuiamo a ridere, ma con un filo di amarezza; alla fine smettiamo di ridere del tutto e facciamo fatica persino ad alzarci in piedi. Siamo storditi da un colpo allo stomaco finale, un twist narrativo che ci ha completamente divertiti e devastati al tempo stesso: come un “parassita” che ci ha contagiati senza che noi nemmeno ce ne accorgessimo.
Parasite è un’opera cinematograficamente sovversiva
Il motivo è semplice: Bong Joon-ho non pone confini allo sviluppo narrativo e alla sua estetica e anzi dimostra ciò che lo rende uno dei più grandi autori in circolazione, ovvero l’essere cinematograficamente sovversivo. Non ci sono regole in Parasite, ancora di più come non esistevano in quel monster-movie che era The Host, nello sci-fi di Snowpiercer o nello strambissimo dramma di Okja. Ecco perché guardandolo ci ricordiamo tanto della crudeltà di Haneke quanto della satira sociale di Ken Loach; ripensiamo ai mondi sotterranei e sdoppiati di Jordan Peele ma anche ad alcune commedie acide di Dino Risi come Una vita difficile o Nel nome del popolo italiano. Ci tornano in mente la freddezza dei personaggi di Alfred Hitchcock e al tempo stesso la sensibilità dei ritratti familiari di Hirokazu Kore’eda. Ma non è questione di semplice citazionismo, perché in questa continua stratificazione di rimandi e di immaginari il film di Bong Joon-ho, pur rompendo ogni regola, mantiene inalterato il proprio schema, come se fosse una creatura camaleontica che si trasforma continuamente senza abbandonare il suo habitat originario. La metamorfosi è si debordante, ma allo stesso tempo naturale e intangibile. Eccolo qui il genio di Bong Joon-ho.
Bong Joon-ho offre un’analisi profonda e caustica del capitalismo
Un habitat, appunto, contaminato da una lettura fortemente critica della plutocrazia della società sudcoreana che in realtà riflette un’allegoria universale delle divisioni economiche, della lotta intestina fra le caste e della cooptazione delle gerarchie di potere. Patriarcato, arrivismo, competizione e darwinismo sociale: Bong Joon-ho non risparmia niente e nessuno in un’analisi profonda e caustica del capitalismo e delle sue perversioni sociologiche, inserendo continui elementi di conflitto sia tra i “poveri” e i “ricchi”, sia fra i “poveri” e i “più poveri”, come in un gioco al massacro senza fine e senza risoluzione. Ma la grandezza di Parasite sta nella sua capacità di essere non solo un film sulle divisioni di classe ma più in generale sulle divisioni, sull’incomunicabilità tra esseri umani, che sia a causa di fattori economici, culturali o politici. Ecco perché nelle loro mancate interazioni i personaggi diventano quasi dei fantasmi, delle presenze latenti che non riescono a vedersi e a riconoscersi anche quando si trovano a pochi metri di distanza, in uno scantinato, sotto il letto o nel buio di una stanza. O come quando per parlare fra loro utilizzano il linguaggio morse attraverso l’accendere e spegnere luci, esattamente come comunicano le famiglie e gli amici divisi tra le trincee di nord e sud Corea (un altro tema che Bong Joon-ho aveva inserito nel suo bellissimo Memories of Murder). Un “horror vacui” insomma, in cui il vuoto è la mancanza di empatia nell’altro a causa di una società ormai scomposta e disgregata, come i frammenti di un puzzle che non si può più ricomporre. Rimane “l’odore” della povertà come unico segno distintivo, un marchio “originario” che non si può cancellare né mascherare. L’unico elemento che può materializzare quei fantasmi e la loro disperata lotta per la sopravvivenza.
Per la sua complessa stratificazione di generi e il suo sguardo lucidissimo sulla società contemporanea, Parasite è forse il miglior film dell’anno e conferma Bong Joon-ho come uno dei più solidi e vigorosi talenti del cinema asiatico. Tanto che, come accennato, ai prossimi premi Oscar la pellicola potrebbe finire nominata anche nelle categorie di miglior film, miglior regia e migliore sceneggiatura: il che potrebbe fare la storia del cinema asiatico e perfino la storia dell’Academy stessa. Dopotutto sarebbe come se una casta di potenti cineasti facesse entrare nella sua prestigiosa ed esclusiva villa qualcosa di anomalo e perturbante. Ma non è un film che abbiamo già visto?